La sindrome di Stoccolma è un particolare tipo di stato di dipendenza psicologico-affettiva che si verifica dopo aver subito degli episodi di violenza fisica, verbale o psicologica come nel caso di un sequestro o di abusi sessuali. Quando accade un clamoroso evento in cui le vittime sono tenute prigioniere o in ostaggio per un lungo periodo, spesso questo termine ritorna alla ribalta soprattutto se le reazioni di chi ha subito questo trattamento danno dei campanelli d’allarme. Infatti, chi è affetto dalla sindrome di Stoccolma prova un paradossale sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando così una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice.

La serie tv spagnola La casa di carta può essere riportata come uno degli esempi più lampanti per spiegare questa sindrome. Una banda di rapinatori si introduce per diversi giorni nella Zecca Reale di Spagna, a Madrid, prendendo in ostaggio numerosi collaboratori della banca. Molti di loro hanno reazioni confuse e di rigetto, ma altri invece hanno reazioni totalmente opposte. Tra cui una dipendente della Zecca che finisce per innamorarsi e sposarsi con uno dei rapinatori diventando una di loro. Per quanto sia solo la storia raccontata in un telefilm, la sindrome di Stoccolma è in realtà più comune di quanto possiamo pensare.

LA STORIA – L’espressione sindrome di Stoccolma è stata coniata dall’agente dell’FBI Conrad Hassel in seguito ad un episodio avvenuto in Svezia nel 1973, quando quattro impiegati, di una banca di Stoccolma, tre donne e un uomo, vennero presi in ostaggio da due rapinatori. Il sequestro durò sei giorni, oltre 130 ore al termine dei quali grazie a gas lacrimogeni lanciati dalla polizia i malviventi si arresero e gli ostaggi vennero rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza e senza subire nessun tipo di violenza. Infatti, fu proprio la reazione di questi ultimi a stupire: una volta rilasciati, espressero sentimenti di solidarietà verso i loro sequestratori arrivando a testimoniare in loro favore, e anzi dimostrandosi ostile nei confronti di chi li aveva salvati.

Questo fu il primo caso in cui si intervenne a livello psicologico sullo stato degli ostaggi, cercando di capire la loro reazione e le loro motivazioni. In seguito, quando ci sono stati casi simili, secondo l’FBI, nel circa il 30 % dei casi gli ostaggi hanno sviluppato la sindrome di Stoccolma. Anche se si parla anche di sindrome a doppio senso, ovvero che non sono solo gli ostaggi ad essere “vittime” della sindrome, ma i rapitori stessi possono sviluppare un legame con loro. Oggi la sindrome di Stoccolma viene associata alla sindrome da stress post-traumatico e può durare anche parecchi anni, senza però che sia nota una durata specifica. Come la sindrome da stress post-traumatico anche questa può essere trattata con farmaci e psicoterapia. Gli ostaggi con la sindrome possono presentare tra i sintomi più comuni disturbi del sonno, incubi, fobie, trasalimenti improvvisi, flashback e depressione.

I CASI – Una volta superato il trauma iniziale, la vittima per sopportare quella situazione estrema cerca di sopperire attraverso un isolamento e una “sottomissione” al suo carnefice. Nella storia si sono verificati molti casi, tra cui anche in Italia. Un esempio sono le due cooperanti della Ong Un ponte Simona Pari e Simona Torretta, che vennero rapite a Baghdad il 28 agosto del 2004. Nel loro caso la prigionia durò un mese, ma una volta libere annunciarono di voler tornare presto dove erano state rapite e ringraziarono i loro sequestratori.

Anche nel caso della cooperante milanese Silvia Romano liberata l’8 maggio 2020, le sue dichiarazioni sulla conversione all’Islam hanno fatto discutere. Infatti la volontaria ha dichiarato di essersi convertita liberamente all‘Islam, sebbene sia stata ostaggio del gruppo jihadista estremista islamico al-Shabaab in Somalia. Le fonti investigative hanno subito pensato che questo possa derivare da “una situazione psicologica legata al contesto in cui la ragazza ha vissuto in questi 18 mesi, non necessariamente destinata a durare nel tempo“. Anche se è una sindrome che non è mai stata accertata nè certificata.

Ma uno dei casi più famosi al mondo è sicuramente quello di Natascha Kampusch, la quale ha vissuto segregata col suo rapitore dal marzo 1998 al 23 agosto 2006, giorno in cui è scappata. Ha testimoniato di avere avuto più volte la possibilità di scappare, ma ha preferito restare col rapitore. Il motivo della fuga, infatti, non è stato un desiderio di libertà, ma un litigio col rapitore stesso. Agli investigatori e agli psicologi che si erano presi cura di lei aveva confessato che non si sentiva privata di niente e che era dispiaciuta della morte del carnefice, il quale si era suicidato quando lei è scappata. La ragazza, però, ha sempre negato di aver sofferto della sindrome di Stoccolma.

Redazione