Le elezioni europee si avvicinano. Gli analisti internazionali si interrogano su come cambieranno gli equilibri all’interno dell’Unione Europea. Riprenderà il solito tran tran delle negoziazioni a Bruxelles? I sovranisti, alla buonora, daranno il colpo di grazia alla costruzione europea? O si affermeranno leadership in grado di rimettere il treno in carreggiata, sui binari che portano agli Stati Uniti d’Europa? Nonostante tutti i suoi limiti, egoismi e ritardi, l’UE è un attore globale. Un attore spesso con troppe teste e ancora incerto sulla parte che vorrebbe recitare, ma di sicuro rilevante. Quello che succede da noi non lascia indifferente il resto del mondo. Per la politica italiana, invece, le priorità sembrano altre. Ci sciroppiamo dibattiti interminabili su chi debba candidarsi capolista. Ci imbattiamo nei veti di personaggi minori che dicono con chi non vogliono allearsi (per la serie: grazie, mo’ me lo segno). E così via. I personalismi della politica italiana sono l’altra faccia del suo provincialismo.

È un peccato, perché l’Europa ha bisogno di un grande paese fondatore come l’Italia. Le crisi multiple che si sono susseguite negli ultimi decenni (finanziaria, economica, migratoria, pandemica, di nuovo economica, geopolitica, energetica) hanno mostrato tutti i limiti dell’UE, alimentando spesso una crisi di fiducia nei suoi confronti. Una crisi di fiducia sia di input sia di output, come direbbero gli scienziati sociali. Input: perché le procedure decisionali appaiono lontane e poco democratiche, sganciate da una vera discussione politica a livello europeo. Output: perché le politiche europee che derivano da quelle procedure non danno risposte ai problemi. L’elettorato è frammentato in “tribù delle crisi”, per dirla con Ivan Krastev e Mark Leonard: ognuno è ossessionato dalle ferite della propria tribù, dalla crisi che ha pagato di più. Questa frammentazione rende impossibile governare. E senza risposte, le tribù si incattiviscono, finiscono preda dei populisti. Per dirla con Salvatore Veca, le radici profonde dell’insorgenza del populismo sovranista – che toccano al cuore la crisi della politica e della democrazia rappresentativa – ne spiegano anche la “resilienza”, la persistenza di un solido radicamento elettorale perfino di fronte a scelte di governo fallimentari.

Per carità, almeno su una di quelle crisi, la pandemia, l’UE ha dato buona prova di sé. Il programma NGEU ha segnato un passaggio storico: debito comune per uscire insieme da una crisi globale. Ma proprio questa risposta positiva rende le prossime elezioni decisive. Ci affideremo a una nuova classe dirigente europea capace di fare di quel programma l’embrione di una nuova Unione, o torneremo al solito tran tran? Dalle colonne del Sole24Ore, Marco Buti e Giampaolo Vitali hanno lanciato sei domande a tutti i partiti italiani, per sollecitarli a spiegarci che Europa hanno in mente. Vale la pena riportarle. Prima: “Siete d’accordo a passare a una politica estera e di difesa europea?” Seconda: “Siete d’accordo a focalizzare il bilancio Ue sui nuovi beni pubblici europei e come proponete di finanziarli?” Terza: “Siete d’accordo a condizionare l’accesso ai fondi europei al rispetto dello stato di diritto e del nuovo Patto di stabilità e crescita?” Quarta: “Siete d’accordo sulla redistribuzione obbligatoria dei migranti?” Quinta: “Siete d’accordo a passare al voto a maggioranza e abbandonare il diritto di veto?” Sesta: “Siete d’accordo a un presidente unico e autorevole della Commissione e del Consiglio europeo?”

Se dovessi dare le risposte che gli autori si aspettano giustamente da altri, pronuncerei un convinto “sì, lo voglio” per ciascuna domanda. Dirò di più: prendendo sul serio il loro invito alla concretezza, provo a stilare la mia lista – in buona parte coincidente con la loro – di scelte di fondo non più eludibili, mettendoci accanto qualche data entro cui realizzarle. Perché la politica dovrebbe dirci questo: non solo che cosa vuol fare, ma entro quando intende farlo.

Abbiamo istituzioni europee, una burocrazia europea e una moneta europea. Adesso ci vogliono, nell’ordine: (1) un bilancio europeo, (2) un esercito europeo, (3) un Presidente europeo, eletto dalle europee e dagli europei, (4) collegi elettorali transeuropei, (5) tecnologie europee, (6) diritti sociali europei. Con quali tempi? La prima proposta significa far subito, dal 2025, un’unione fiscale che completi quella monetaria, rendendo permanente NGEU per finanziare beni pubblici, inizialmente a debito, garantito da una porzione dei flussi fiscali nazionali, poi con tasse proprie entro la fine della legislatura. Anche l’esercito europeo va deciso subito, dal 2025, per arrivare – visti i tempi tecnici per condividere strutture, formazione, mezzi – a prime truppe che coesistono con quelle nazionali entro la fine della legislatura, e poi stilare il cronoprogramma per un esercito unico entro 15 anni. Il Presidente unico, come dicono Buti e Vitali, si può fare subito a trattati immutati, dal 2024, mettendo poi in moto una riforma istituzionale per far eleggere dalle europee e dagli europei chi prenderà il suo posto nel 2029. Per rendere più forte il Parlamento, sempre per il 2029, si dovrà mettere mano a una riforma elettorale che preveda collegi transeuropei. Le ultime due proposte sono esempi di beni pubblici.

In un mondo in cui la geopolitica si ciba di tecnologia, l’Europa deve rompere gli indugi e affiancare alla regolamentazione dell’intelligenza artificiale una politica industriale che ci consegni attori globali. Sul versante dei diritti sociali, non si tratta di creare un welfare unico, ma di impiegare risorse finanziarie e umane per favorire la convergenza verso il paradigma dell’investimento sociale e del “tempo di base”, di cui abbiamo discusso la scorsa settimana in questa rubrica. C’è qualcuno che è pronto a buttare il cuore oltre l’ostacolo e abbracciare un programma altrettanto chiaro e radicale? Le donne e gli uomini che si riconoscono nel federalismo europeo e vogliono gli Stati Uniti d’Europa, dovrebbero pretenderlo, dicendosi pronti anche solo per le elezioni europee a dare il proprio sostegno a chi si farà interprete del programma più ambizioso. Rivoluzione Europa.