Il dibattito sul salario minimo prosegue
Stipendi: per aumentarli, nel nostro Paese, bisogna tagliare le tasse. Lo dicono i dati
Uno studio pubblicato proprio in questi giorni evidenzia che l’analisi di 11 contratti collettivi nazionali ampiamente applicati prevedono una retribuzione oraria superiore ai 9 euro. Col salario minimo, potrebbero diminuire.
Che in Italia gli stipendi siano più bassi rispetto alla media europea è un’affermazione che non sorprende più nessuno. Ed anche i motivi che hanno portato a questa situazione sono chiari: negli ultimi decenni l’economia italiana è cresciuta poco, la produttività non è aumentata, gli investimenti in nuove tecnologie sono stati scarsi (ed incoscientemente si è cancellata Industria 4.0!), la formazione e preparazione di manager e dipendenti non sempre è stata all’altezza. A tutto ciò dobbiamo poi aggiungere i problemi strutturali del nostro Paese, che vanno dall’inefficienza del settore pubblico alla rilevante pressione fiscale o al cattivo funzionamento dei servizi al mondo del lavoro.
Il risultato è che sulla base dei dati OCSE, l’Italia è l’unico Paese europeo che nell’ultimo decennio ha visto diminuire i salari del 2,9%. Siamo gli ultimi in classifica, con un dato negativo che si confronta con il +6,2% della penultima, la Spagna, ma anche con il +33,7% della Germania e il +31,1% della Francia. In una situazione già di per sé drammatica, si inserisce poi l’ulteriore aggravante di un tasso di inflazione elevato, che ha eroso il potere d’acquisto degli stipendi riducendo drasticamente i salari reali nell’ultimo anno di quasi 6 punti percentuali, più del doppio rispetto alla media dei Paesi europei.
La necessità da tutti riconosciuta di definire uno strumento che permetta di incrementare gli stipendi vede oggi al centro della discussione politica e mediatica la proposta del salario minimo. Una proposta sfociata nella presentazione di un disegno di legge da parte di una eterogenea compagine, da va dal Partito Democratico al Movimento 5 Stelle, da Azione alla sinistra più radicale, che poco sembrano avere in comune, se non la volontà di contrapporsi a priori al “nemico”. Una proposta di 8 articoli che ha una finalità ben definita: stabilire che al di sotto di una retribuzione oraria di 9 euro non si deve più parlare di lavoro ma di sfruttamento.
Va subito evidenziato che le reazioni a questo progetto di gran parte del mondo imprenditoriale ma anche di una parte del sindacato non sono state particolarmente positive. Esemplificative le parole del leader della CISL Luigi Sbarra, che senza mezzi termini ha dichiarato: «non si risolve il problema degli stipendi inserendo una cifra in Gazzetta Ufficiale». Da imprenditore, forte di un’esperienza in azienda di ormai quasi 40 anni, non posso che concordare ed evidenziare il mio scetticismo su questa proposta.
Parto dal presupposto che i datori di lavoro di oggi sono perfettamente consapevoli che il successo e la crescita delle loro aziende sono legate a doppio filo al benessere ed alla soddisfazione dei propri dipendenti. Questo motivo, oltre al resto, mi ha portato a presentare durante la mia esperienza parlamentare due disegni di legge aventi per oggetto il primo, la rimodulazione della settimana lavorativa su quattro giorni a parità di stipendio ed il secondo, la partecipazione dei dipendenti alla gestione e alla distribuzione degli utili di impresa.
È poi un dato di fatto che in Italia – a differenza di gran parte dell’Europa – il mondo del lavoro possa fruire non solo di un valido sistema di relazioni industriali ma di procedimenti di contrattazione collettiva che comprendono la stragrande maggioranza dei lavoratori.
È in questa sede che bisogna agire per definire non solo i meri trattamenti economici, ma anche tutte le altre protezioni e salvaguardie che allo stipendio sono legate. Uno studio pubblicato proprio in questi giorni evidenzia che l’analisi di 11 contratti collettivi nazionali ampiamente applicati prevedono una retribuzione oraria superiore ai 9 euro. Ecco, l’applicazione del salario minimo per legge potrebbe addirittura rischiare di ottenere l’effetto contrario, andando a comprimere salari medio alti.
Non ritengo che il salario minimo orario sia la strada giusta da percorrere per sostenere economicamente i lavoratori. Meglio continuare a spingere sulla riduzione del cuneo fiscale, sulla detassazione della contrattazione aziendale o territoriale o approfondire soluzioni innovative come l’imposta negativa, tutti strumenti ragionevoli, efficaci, fruttuosi. Le illusioni le lasciamo ad altri.
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