Il suicidio di Angelo Burzi ha sollevato qualche leggera protesta nel mondo politico. Di solito silente e devoto di fronte alle iniziative della magistratura. Stavolta qualcuno ha fatto sentire la sua voce -persino nel mondo giornalistico – e ha osservato come la spietatezza ingiusta della giustizia, a volte, porta a conseguenze tragicissime. Angelo Burzi era una persona perbene che aveva dato molta della sua intelligenza e delle sue doti alla politica. Cosa che una volta – quando io ero giovane – era considerata apprezzabile. Oggi invece, nel senso comune, è segno di corruzione e di avidità. Diceva Manzoni, “In quel tempo Il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Non è cambiato molto da allora (1630, più o meno).

Burzi si è ucciso, sparandosi, perché non sopportava una condanna penale ingiusta e l’accusa di essere un corrotto. È segno di forza sacrificare la vita alla difesa della propria dignità, non di debolezza o tremore. Il partito dei Pm invece ha reagito senza nessuna paura né gentilezza. Di fronte alla morte di una vittima della giustizia, ha gridato, più o meno, e più o meno all’unisono: “era giusto che morisse, ha peccato, ha sbagliato, ha commesso reato”.

Burzi era stato assolto in primo grado. I giudici avevano detto che il suo non è reato. Ma in Italia una persona può essere giudicata innocente e poi condannata con le stesse accuse dalle quali era stato assolto. E con le stesse prove. È uno dei pochissimi paesi dove succede questo. I Pm da noi hanno il diritto di allungare finché vogliono i tempi supplementari e di ignorare qualsiasi assoluzione. Se ti vogliono inchiodare, tranquillo, ti inchiodano.

A guidare l’offensiva spietata e incivile del partito dei Pm si sono impegnati il capo del partito, Marco Travaglio (che ieri nel suo editoriale è giunto a sbeffeggiare il morto), e il procuratore generale di Torino. Credo che non fosse mai successa una cosa del genere. Io, per esempio, so leggere da 64 anni, ma un articolo fuori da ogni senso di umanità come quello di Travaglio non l’avevo mai letto. Credo che anche molti giornalisti del Fatto non lo avessero mai letto e che condividano questo mio stupore.

Penso che ormai sia aperta una grande questione morale. Riguarda la ferocia di un pezzo di magistratura che sta travolgendo la nostra civiltà e lo spirito pubblico di questo paese. Troviamo il coraggio per porre questa questione morale sul tavolo, e per chiamare la politica, gli intellettuali, pezzi di giornalismo e di scienza, e del diritto, e della stessa magistratura, a reagire? O preferiamo scivolare piano piano nell’infamia?

Avatar photo

Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.