«Che io non fossi suo figlio non gli aveva impedito di volermi bene come se ne vuole a un figlio»: quando Isaac Holcombe arriva a pensarlo, è già successo tutto. Il lettore di Un piede in Paradiso di Ron Rash (La Nuova Frontiera, pp. 249, traduzione di Tommaso Pincio, 16,90 euro), giunto a tal punto, ha il cuore in gola perché si rende conto che ogni azione umana, buona o cattiva, produce conseguenze incontrollabili e noi spesso ci illudiamo di poter modificare il corso degli eventi di cui siamo il frutto. Tuttavia i nostri gesti, quali che siano, restano decisivi, fanno comunque la differenza. Su questo antico mistero di sapore biblico William Faulkner, uno dei fari della letteratura americana, impostò tutta la sua opera brevettando l’impianto narrativo delle voci plurime che, giustapponendosi l’una all’altra, ruotano intorno allo stesso evento offrendone visioni perfino contrastanti: L’urlo e il furore (1929) è l’esempio manualistico che di norma si fa a tale riguardo.

Ron Rash, nato nel 1953 a Chester, in Sud Carolina, nel suo primo sunnominato romanzo, che risale al 1982, riparte proprio da lì. Il testo, ambientato negli anni Cinquanta del secolo scorso, in una comunità di agricoltori in procinto di essere spazzata via da un’azienda elettrica che vorrebbe allagare le terre circostanti per costruire una diga, è diviso in cinque monologhi di personaggi coinvolti a vario titolo nella medesima storia. Una giovane donna, di nome Amy, vorrebbe diventare madre ma suo marito, Billy Holcombe, coltivatore di tabacco con una leggera zoppìa dovuta alla poliomielite contratta da piccolo, non può accontentarla perché sterile. Lei allora si rivolge alla vedova Glendower, una vecchia strega esperta nella preparazione di erbe medicinali, che le consiglia di giacere con Holland Winchester, gagliardo eroe della guerra di Corea da tutti considerato una testa calda, il quale però non si limita a fare lo stallone, ma s’innamora della ragazza innescando una tragica catena. All’inizio potrebbe sembrare la trama della Mandragola che Niccolò Machiavelli compose qualche secolo addietro, ma presto Ron Rash, autore assai noto e stimato in Usa, peraltro finalista al Pen /Faulkner Award del 2007 ma incredibilmente quasi sconosciuto in Italia, ci porta in un altro mondo articolando questo incandescente nucleo tematico in cinque capitoli attribuiti a altrettanti personaggi, ognuno dei quali teso a dare la propria versione dei fatti, che in realtà sono sempre gli stessi.

Will Alexander, lo sceriffo, rivela la patetica insufficienza dello strumento giuridico, una specie di moderno arnese multiuso ridicolmente inadatto a definire, se non giudicare o addirittura comprendere, la devastante profondità dell’animo umano. Amy, moglie e madre, protagonista allo stesso tempo intrepida e sventata, mostrando l’ingranaggio principale della drammatica vicenda, scopre la crudeltà della natura che, grazie a lei, avanza cieca come una cellula tumorale in mezzo agli individui della nostra specie finendo per divorare se stessa. Billy Holcombe, marito e padre putativo, sconta sulla sua pelle il peso di un incantesimo a cui, con tutta la buona volontà, non riesce a sfuggire, quasi fosse un predestinato. Isaac, il figlio, incolpevole perno dell’antico dissidio, dopo essere vissuto nella menzogna che i genitori gli hanno trasmesso, nel momento in cui capisce chi era davvero suo padre – a dirglielo sarà la nonna, altra figura straordinaria – decide di rompere gli indugi dando fuoco alle polveri: «Perché non sapere era peggio che sapere». Chiude la fila il vice sceriffo: sorta di smagato cerimoniere di uno spettacolo tragico e insensato.

Brillano in questo scrittore americano dei tempi nostri lampi lirici scintillanti, alla Cormac McCarthy, come giustamente è stato notato, non a caso egli ha composto a tutt’oggi anche quattro libri di poesia. Un piede in Paradiso, il cui titolo è ricavato da una citazione di Edwin Muir relativa a un possibile sguardo dall’alto da parte di una divinità sgomenta di fronte alla terra «a lungo coltivata / con semi d’amore e odio», prima ancora che la sagoma di un romanzo gotico, sembra il canovaccio di un salmo. Denso di richiami ed assonanze, non può essere ridotto alla cronaca criminale che pure contiene. Il Sud Carolina era il regno dei Cherokee, ben prima che i coloni bianchi se ne impossessassero, rompendo equilibri ancestrali, rispetto ai quali Sherman Jameson, ingegnere capo della Carolina Power, l’azienda idrica tesa a scardinare le proprietà dei vecchi coloni come se dovesse disossare un pollo, rappresenta soltanto l’ultimo anello di una collana.

Alla fine i cadaveri dei morti, disseppelliti dal cimitero in cui si trovano per essere trasferiti altrove, ci chiederanno il conto, anche se non sappiamo quale sarà la cifra che dovremo risarcire. Quando Isaac va alla ricerca dei resti del vero padre, lo scopre da solo: «Mi sono messo a scavare con più lena. Ho trovato una medaglia con ancora il nastro di seta, un paio di occhielli da stivale e alcuni frammenti d’osso. Ho messo tutto nel sacco insieme a un po’ di terra. Ho scavato ancora, ma senza trovare niente a parte schegge di ceramiche indiane e altre radici».

Ecco cosa restava di chi gli aveva dato la vita. «È tutto lì, figliolo», gli dice lo sceriffo con fare bonario, senza riuscire a nascondere l’amarezza, lui che pure in carriera ne aveva viste tante. E Isaac si ricorda quando a scuola il maestro, guardando i suoi occhi marrone scuro, unici fra quelli azzurro chiaro dei genitori, gli chiedeva: «Sei un Winchester, vero?». Una battuta che da bambino non aveva mai saputo bene come interpretare, almeno finché la madre di Holland, la vecchietta che a messa gli regalava le mentine e pareva sempre pronta a rivelargli tutti i segreti, anche se non si decideva mai, non gli mise finalmente in mano la Gold Star, una specie di scheggia lavica, l’onorificenza che il governo degli Stati Uniti aveva concesso all’uomo di cui lui perpetuava lo sguardo.