L’incontro segreto di Roma tra il ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, e l’omologa libica, Najla Mangoush, ha ottenuto un risultato opposto a quello che si attendeva il governo dello Stato ebraico. Il capo della diplomazia israeliana aveva dato notizia della riunione facendo capire che con Tripoli era in corso una normalizzazione silenziosa ma sempre più prossima. Invece quello che doveva essere il vertice del cambiamento si è tramutato nel detonatore di una crisi che serve anche a riaccendere i riflettori sulla complessa questione libica. Perché a poche miglia dall’Italia, il caos sembra essere sempre più dilagante. L’eventuale percorso di avvicinamento con Israele viene letto come un tradimento da molte fazioni libiche.

Il primo ministro del governo di unità nazionale, Abdelhamid Dbeibah, ha rimosso subito la ministra dopo che questa era dovuta fuggire in Turchia con un aereo decollato in fretta e furia dall’aeroporto di Mitiga. Ma la mossa di Dbeibah, in una posizione sempre più precaria, potrebbe non bastare per la sua sopravvivenza politica. Il capo del Consiglio presidenziale libico Mohammed Menfi ha definito la decisione della ministra, in questo avallata dal capo dell’esecutivo, “una violazione delle leggi libiche che criminalizzano la normalizzazione con l’entità sionista”. Dello stesso avviso si sono mostrati altri esponenti politici e uomini particolarmente influenti del Paese nordafricano, che hanno interpretato questa possibile svolta – a questo punto abortita – un modo per escludere completamente Tripoli dalla difesa della causa palestinese. Un tema che invece è sempre stato parte integrante dell’agenda estera libica sin dai tempi di Muhammar Gheddafi, e che non è mai stato messo in dubbio nemmeno dai governi post-rivoluzionari.

Le proteste a Tripoli e le accuse dei politici libici si sono unite, pur da posizioni opposte, alle rimostranze manifestate dall’amministrazione Biden e rivelate dal portale Axios. La Casa Bianca, infatti, è apparsa molto seccata per il modo in cui il ministero israeliano ha gestito l’incontro romano. Meeting che doveva rimanere segreto per le notevoli implicazioni politiche e che – a detta di molti analisti – avrebbe fatto parte di una complessa triangolazione tra Washington, Tripoli e Gerusalemme in cui la normalizzazione tra Libia e Israele sarebbe stata la richiesta Usa per ribadire il sostegno alla leadership di Dbeibah. Sostegno che era già stato certificato dal raro (e per questo anche più curioso) incontro che era avvenuto a gennaio di quest’anno a Tripoli tra lo stesso premier libico e il capo della Cia William Burns.

Gli Stati Uniti ora temono che l’errore compiuto dalla diplomazia israeliana possa avere ripercussioni non solo sui rapporti tra Israele e Libia ma anche su altri dossier. Da una parte può incidere sul piano Usa di convincere i Paesi arabi e in generale quelli a maggioranza islamica a riconoscere Israele. Il premier libico ha già fatto una visita all’ambasciata palestinese a Tripoli inviando così il messaggio di non volere essere visto come un leader vicino allo Stato ebraico. Dall’altro lato la fragilità di Dbeibah potrebbe a questo punto risultare insostenibile per gli Usa, provocando un nuovo punto interrogativo nella già difficile partita nordafricana e africana di Biden. Il Wall Street Journal ha rivelato che la recente visita a Bengasi del viceministro della Difesa russo, Yunus-Bek Yevkurov, ha certificato il passaggio di consegne delle attività della Wagner in Libia – lato Cirenaica – direttamente a Mosca. E questo conferma che il Cremlino, dopo la fine di Evgenij Prigozhin, non rinuncerà al suo avamposto nordafricano. Washington rischia quindi di vedere evaporare sempre di più la leadership del suo interlocutore a Tripoli proprio mentre Mosca blinda il legame con l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, ora impegnato anche a colpire i ribelli del Ciad. A riprova che i destini della Libia non possono essere scissi da quelli dell’infuocato Sahel.

Lorenzo Vita

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