Pochi giorni fa ho scritto un post su Facebook a proposito di quanto dichiarato da Goffredo Bettini che ha auspicato la nascita di «un soggetto riformista e moderato», guidato da Carlo Calenda e Matteo Renzi, chiamato ad affinacare Partito democratico e Movimento 5 Stelle in un nuovo centrosinistra. Nel post evidenziavo come tale proposta rappresentasse ulteriore conferma dell’abiura del Pd rispetto all’intuizione veltroniana del «partito dei riformisti italiani a vocazione maggioritaria».

Se il riformismo fosse stato affidato a un soggetto neocentrista, quale sarebbe stato l’orizzonte strategico, valoriale e identitario del Pd? la proposta di Bettini, dunque, costituisce un ulteriore scivolamento dei democrat verso la prospettiva di un mega-partito neopopulista, giustizialista e centralista che include Pd e M5S. Bettini ha replicato sostenendo che da questa sua indicazione ha preso le distanze parte del gruppo dirigente del partito, a partire dal segretario nazionale Zingaretti. A me è parsa una dissociazione tattica, tesa a evitare ulteriori lacerazioni nel tessuto di una compagine già sfibrata da due scissioni! La vicenda del referendum, illustrata da Ciriaco Viggiano nel suo editoriale di martedì su questo giornale, lo conferma in toto. Il Pd abbandona la scelta del no al taglio dei parlamentari, espressa tre volte in Parlamento, e sembra acconciarsi sul sì, posizione del M5S che ripropone la consunta vulgata anticasta. Testimonianza di ciò sono le esternazioni di Maurizio Martina, del governatore emiliano Stefano Bonaccini e di altri. In Campania il gruppo dirigente del partito non riesce a esprimere di meglio che un’improbabile «libertà di coscienza». È Vincenzo De Luca che squarcia il velo del conformismo e che annuncia il suo no al referendum, sostenendo che «votare sì, in assenza di una seria riforma istituzionale e dei regolamenti parlamentari, non rappresenta altro che un ulteriore cedimento alla demagogia dell’antipolitica».

La mia impressione è che il Pd, oltre a prepararsi ad affrontare una recrudescenza della pandemia con conseguente crisi sociale ed economica, oltre che la ripresa delle attività scolastiche e formative (l’inadeguatezza del ministro Lucia Azzolina è sempre più evidente), debba recuperare un’unica voce sul referendum, uscendo dall’insostenibile balbettio di queste ore e assumendosi la paternità di un’iniziativa forte a difesa della rappresentanza parlamentare. Il partito non si discosta da un avvilente 20% in tutti i più significativi sondaggi e ha urgente bisogno di recuperare lo spirito fondativo del Lingotto. Ciò è ancor più urgente in Campania dove De Luca punta a riconquistare la Regione con una coalizione che con il centrosinistra ha ben poco da spartire e dove il Pd rischia di avere un ruolo residuale e ancor di più a Napoli. Nella nostra città, infatti, i democratici hanno collezionato due clamorosi rovesci elettorali, aprendo la strada alla demagogia sterile e inconcludente dell’attuale sindaco. Si avverte in città un moltiplicarsi di iniziative civiche, dinamiche, interessanti, che segnalano una rinnovata voglia di protagonismo dell’intellettualità, del mondo delle professioni, delle forze sociali. Il Pd partenopeo non può restare nel guado. Deve recuperare una salda e convincente visione riformatrice, coinvolgere energie ancora forti e in grado di parlare alla città, entrare in connessione con quanti in questi anni si sono opposti a scelte amministrative che hanno emarginato Napoli dal contesto nazionale ed europeo, confinandola a un ruolo periferico che mortifica la sua millenaria storia. È il tempo di scelte coraggiose, di cambiamenti ambiziosi. Di voto di coscienza, di estenuanti tattiche e di eterno attendismo si può anche morire.

Avvocato e già assessore al Patrimonio del Comune di Napoli.