Manca meno di un mese alla consultazione referendaria che, il 21 settembre, chiamerà gli italiani a sacrificare un altro pezzo di quella democrazia parlamentare eroicamente e faticosamente consegnataci, nel 1948, con la Costituzione. Tra i tanti attacchi portati alla Carta negli ultimi anni – clamoroso quanto “sfortunato” quello che costò il posto a Matteo Renzi – questo è però il più insidioso perché è alimentato dal becero antiparlamentarismo suscitato negli italiani dalle campagne contro la “casta” orchestrate, ormai da una decina di anni, per indebolire la politica esaltandone gli innegabili difetti anche quando questi riguardano – come nell’esecrabile caso dei “bonus” – una frangia marginale.

Cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, la decimazione delle Camere risponde alla logica di umiliare il Parlamento dimostrando, come avverrebbe se la compagine eteroguidata da Casaleggio&Associati prendesse il potere, che non solo “uno vale uno”, ma che uno o nessuno è lo stesso visto e considerato che le decisioni si prendono altrove. Il disegno del resto era più ampio e sintomatico di cosa intendano questi signori per democrazia; infatti, a corollario del taglio dei parlamentari, i Cinquestelle proponevano altre due leggi: una per l’introduzione del vincolo di mandato (alle volte non fosse chiaro in mano a chi sia la leva di comando) e l’altra per l’istituzione del referendum propositivo (arma finale per delegittimare il Parlamento).

Ne è rimasta sul tavolo una sola che, però, è sufficiente a far sventolare la bandiera dell’anti casta, del risparmio dei soldi degli italiani anche se, al lordo delle tasse che pure deputati e senatori pagano, non si arriverà a più di 50 milioni di euro l’anno: lo 0,007% della spesa pubblica. A fronte dell’equivalente di un caffè per ogni contribuente risparmiato, avremo un assetto delle nostre istituzioni democratiche confuso e contraddittorio, probabilmente ingestibile in termini di lavori parlamentari, pericolosamente sbilanciato sui territori. Basti pensare alla penalizzazione della rappresentanza che subiranno regioni come l’Umbria o la Basilicata (che passeranno da sette a tre senatori) o alla sperequazione tra il Trentino Alto Adige e la Sardegna (la prima avrà un seggio ogni 160 mila abitanti, la seconda uno ogni 320 mila…!) o, ancora, ai riflessi che il taglio produrrà sulla soglia di sbarramento che, per esempio, in regioni come la Liguria arriverà, di fatto, al venti per cento. Per non parlare del voto – e della rappresentanza – degli italiani all’estero. Saremo, in sostanza, il Paese con il più alto rapporto di eletti per abitante in Europa.

Nel centrodestra ho motivi sufficienti per ritenere che molti la pensino come me anche se non tutti hanno fino ad ora esplicitato il proprio dissenso o considerato quanto sia pericoloso, per una democrazia occidentale, avallare il ridimensionamento delle Camere proponendo, al contempo, una “repubblica presidenziale”. Non solo: qualcuno mi dovrebbe spiegare perché mai chi annuncia continue “spallate” al governo in carica non voglia poi approfittare della migliore delle occasioni per far scoppiare le evidenti contraddizioni interne alla maggioranza e, allo stesso tempo, recidere definitivamente la liaison tra la Lega ed i Cinquestelle consacrata, anche, sulla demagogica riduzione dei parlamentari. Comunque non ho paura nemmeno delle battaglie eventualmente solitarie e mi batto per il No esattamente come feci quattro anni fa contro la riforma della Costituzione proposta dal centrosinistra al governo. Anche perché non mi rassegno alla “profezia” di Robert Hutchins – uno dei maggiori pedagogisti americani – il quale sosteneva che «è improbabile che la morte della democrazia sia un assassinio perpetrato mediante un’imboscata. Sarà piuttosto una lenta estinzione per apatia, indifferenza e sottonutrizione».