Non ho mai dimenticato quel pianto delle bambine che abitavano al piano di sotto. Quando sono diventato padre, ho capito a cosa potesse corrispondere. Ho capito il dramma dell’ impossibilità del genitore di poter andare vicino alle figlie che piangevano e non riusciva a toccarle, non poteva salvarle”. Sono passati 40 anni ma per Donato Gioseffi, 65 anni, che si occupa oggi di formazione professionale, è come se il tempo si fosse fermato a quell’agghiacciante ricordo. Per tutti questi anni non ha mai voluto raccontare cosa gli fosse successo quella notte del 23 novembre 1980. A chi gli chiedeva perché zoppicasse e perché avesse una spalla anchilosata ha sempre risposto che era stata colpa del terremoto dell’Irpinia. “Sono storie di tutti che io ho evitato per anni di raccontare, non le ho dette nemmeno ai miei figli”.

La sua notte del Terremoto dell’Irpinia è durata ben 18 ore in cui è stato sepolto sotto le macerie del palazzo di cemento armato a Lioni in cui abitava con sua madre. Quella sera alle 19.35 stava guardando tranquillamente la partita seduto sul divano. Con lui nel salotto c’era anche Maria, la sua fidanzata che compilava i cruciverba. All’improvviso il palazzo ha iniziato a ondeggiare. “Abbiamo avuto giusto il tempo, d’istinto, di abbracciarci e siamo sprofondati nel buio più profondo – racconta Donato – Non abbiamo nemmeno avuto la percezione di ciò che stava accadendo. Ci siamo risvegliati non saprei dire nemmeno quanto tempo dopo incastrati tra i piloni di cemento armato, sotto tre piani di macerie”.

Per tutta la notte continuarono le scosse di assestamento. Donato e Maria schiacciati tra i pilastri rischiavano la vita ad ogni minimo smottamento del terreno. “Con la gola riarsa dalla polvere decidemmo di cominciare a gridare aiuto una volta ciascuno, poi una volta ogni minuto – ricorda – All’appartamento sopra di noi abitava una coppia di ragazzi, marito e moglie. Quando la terra cominciò a tremare lei era salita a casa con la spesa, lui stava parcheggiando l’auto nel garage. Fu una questione di pochi secondi: lui cominciò a cercare disperatamente la moglie tra le macerie, ma lei non gli rispose mai. Era morta. Mentre la cercava sentì però le nostre voci e ci parlò: qualcuno sapeva che eravamo ancora vivi”.

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La madre di Donato non aveva quasi mai lasciato Lioni, ma il caso volle che giusto in quel fine settimana si era allontanata per andare a trovare un parente e Firenze. Alle 19.35 di quel 23 novembre era in auto con altri parenti di ritorno a casa. La radio cominciò a vacillare: era il rumore del terremoto, il sobbalzare della testina del giradischi alla radio che annunciava in diretta e senza parole la catastrofe che travolse tutto il Sud Italia. Arrivata in una Lioni distrutta, la mamma di Donato corse a cercare il figlio e la sua fidanzata che sapeva essere in casa in quel momento. “Come avrebbe fatto ogni madre cominciò a gridare il mio nome a squarciagola – ricorda Donato con le lacrime agli occhi – Quelle urla e quel nome, adesso che mia madre non c’è più, me li sento ancora di più rimbombare nella mente. Erano come le urla delle madri disperate ai funerali di un figlio”.

Durante la notte sentivamo il pianto delle bambine del piano di sotto – continua – avevano 11 e 9 anni, le conoscevamo bene. Poi sentivamo sbattere forte: erano i loro genitori che cercavano di raggiungere le due piccole, cercando di liberarsi. Ma non ci riuscirono mai. All’improvviso, alle prime luci del mattino, finirono i rumori forti e le bambine smisero di piangere. Erano morti tutti. Non potrò mai dimenticare il loro pianto”.

Al mattino arrivarono i primi soccorsi. I sopravvissuti iniziarono a cercare i propri cari e a scavare con qualsiasi cosa trovassero in strada. “Arrivarono i militari ma se ne andarono subito – dissero – non avevano nulla per scavare, e iniziarono ad aiutare chi si poteva estrarre. A metà mattinata riuscirono a tirare fuori Maria. Io rimasi sotto perché la gamba era bloccata sotto un pilastro. Un medico mi disse anche che voleva tagliarmi la gamba. Non volli assolutamente. Avevo sete, tantissima sete, per tutta quella polvere. Ma non c’era nemmeno acqua. L’unica cosa che i miei soccorritori trovarono fu una bottiglia di cognac miracolosamente scampata alla distruzione e così placai un pochino l’arsura”.

Arrivarono i cugini di Donato, gli amici, e tutti insieme riuscirono a tirarlo fuori. Malconcio com’era, fu disteso su una panchina in mezzo alla piazza. Tutti passarono a rincuorarlo, anche chi aveva appena perso uno dei suoi cari. “Ci davamo tutti coraggio a vicenda”. Poi Donato è stato portato in Ospedale. “Lì i volontari ci chiedevano continuamente se avessimo bisogno di qualcosa – racconta – Io dicevo sempre di no. Poi il giorno in cui sono uscito mi sono reso conto che ero senza un pantalone, senza una maglietta. Non avevamo più nulla. Realizzai allora che noi non avevamo più niente e non avevamo più niente nemmeno dei nostri ricordi della vita precedente”.

Donato asciuga le lacrime e si apre a un sorriso più caldo di un abbraccio: “Nel 1980 quando passavi la notte fuori con una ragazza, poi dovevi sposarla – ride – Io e Maria avendo passato quella notte insieme dovevamo sposarci. Lo abbiamo fatto due mesi dopo da terremotati. Ci sposammo in due coppie di amici. La Protezione Civile di Zamberletti ci regalò delle giacche a vento bianche e degli orribili scarponi da neve e così ci sposammo”. Fu un matrimonio di tutti, non c’erano invitati, o meglio tutti lo erano.

C’erano gli abitanti di Lioni, i parenti e gli amici e c’erano anche i volontari accorsi in Irpinia per dare una mano. Tra questi gli operai di Piombino di cui Donato conserva ancora una foto di gruppo. “Rinunciavano alle loro ferie per venire ad aiutarci. Sentivamo forte la solidarietà nazionale. Il nostro matrimonio fu l’occasione per ricostruire qualcosa in quel paese – conclude – Fu un modo per esorcizzare quello che era successo due mesi prima”.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.