L’orologio della piazza di Conza della Campania è rimasto fermo alle 19.35 del 23 Novembre 1980. Con esso anche molti di quei luoghi che il tempo sembra aver fermato. Perché il Terremoto dell’Irpinia ha lasciato ancora aperte numerose ferite, ancora visibili 40 anni dopo non solo negli occhi delle persone che lo hanno vissuto, ma anche nei loro territori che ancora vivono. Oggi quella ricostruzione poderosa che costò allo Stato oltre 50mila miliardi di lire, almeno fino alla relazione conclusiva presentata nel 1991 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, sembra non essere ancora terminata. Non lo è sicuramente nell’animo di tanti che vissero quel dramma che non hanno dimenticato.

IL RICORDO DELLE VITTIME – “Il 23 novembre alle 19.30 stavo vivendo uno dei momenti più belli della mia vita. Ero all’ospedale perché era appena nato il mio primo bambino. Stavo parlando con il pediatra quando all’improvviso è letteralmente sprofondato nel nulla. Morto in un pugno di secondi. Io e mia moglie ci siamo salvati per miracolo. Il nostro bambino è morto dopo aver conosciuto la vita poche ore prima”. Per Carmine Montemarano, barbiere di S.Angelo dei Lombardi, quei 90 secondi trasformarono il suo giorno più bello in quello più brutto. Cercarono il corpo di quel neonato per giorni tra le macerie e gli ospedali della Campania. “All’inizio ci avevano detto che era vivo. Invece avevano solo confuso la targhetta con il nome”. “Anche io sono salvo per miracolo – dice Tito Saetta, fotografo dello stesso paese – Ero appena uscito di casa quando il mio palazzo è crollato completamente. Dentro c’erano mia moglie di 28 anni e le mie figlie di 8 e 11 anni”. Per lui ricordare è un dolore che toglie il fiato. “È come se la tragedia fosse successa ieri”.

“Io ero un bambino. Stavo guardando la TV con i miei nonni come facevo sempre e in un attimo ci siamo trovati sotto le macerie. Mio nonno si gettò di colpo sopra di me: un gesto d’amore che mi ha salvato la vita, ma lui ha rinunciato alla sua”, ricorda Marco Marandino, che attualmente è sindaco di S.Angelo dei Lombardi. Passò tutta la notte sotto le macerie pregando ad alta voce per essere salvati. Poi all’improvviso la voce dell’amato nonno si spense. Era morto. “Fui portato all’ospedale di Caserta – continua il racconto – i miei genitori mi cercarono per una settimana per sapere dove fossi. E io non sapevo nulla di loro, nemmeno se fossero vivi”. “Io sono diventata sindaco in una tenda – racconta Rosanna Repole, consigliere provinciale, delegata a cultura e promozione Territorio – Avevo solo 30 anni. Mi sono salvata per miracolo perchè non ero in casa”.

Durante il terremoto a Sant’Angelo dei Lombardi persero la vita il sindaco, il parroco e il capo dei carabinieri. Di fatto l’intera comunità perse i suoi riferimenti istituzionali in un momento di grande crisi. Fu il comune più colpito di tutti dal Terremoto. Fu raso al suolo il 95% del patrimonio edilizio, ci furono 432 vittime: praticamente scomparve una intera generazione di persone. Nell’emergenza si fecero avanti i giovani come Rosanna Repole. “Da una parte ricordo le morti, l’odore acre della polvere mista a morte che c’era. Dall’altra ricordo la gioia di quando veniva salvata una persona e quella grande solidarietà nazionale che c’è stata intorno all’Irpinia”. Di testimonianze e dolori come queste ce ne sono centinaia tra gli irpini. Una ferita nell’anima che 40 anni dopo è ancora freschissima. “Siamo come quei nonni che ci raccontavano di aver combattuto nella guerra e dalle loro parole sembra che sia successo tutto il giorno prima”, dice Tito Saetta.

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AVELLINO CENTRO – Ma le ferite non sono aperte solo nell’anima delle persone, ma anche nei luoghi fisici. Di quei 20mila edifici distrutti dal sisma alcuni di questi si trovavano ad Avellino. La notte del 23 Novembre la cittadina si presentava come un cumulo di macerie. I morti furono circa 73 ma gli sfollati raggiunsero le migliaia. Mario Limata, perito assicurativo nato e cresciuto ad Avellino, all’epoca aveva solo 6 anni. Ricorda la boccia dei suoi pesci rossi tremare e poi cadere rovinosamente a terra. “Non è stato facile essere bambini in quegli anni – racconta – La nostra infanzia ad Avellino è stata sempre condizionata dal Terremoto. Io non ho mai studiato in una scuola vera: le strutture erano sempre prefabbricati. Anche la prima comunione l’abbiamo fatta in un giardino perché la chiesa era inagibile. Punti di ritrovo e negozi erano nei prefabbricati sui marciapiedi del corso. Non avevamo le palestre, non c’era niente”. Di tutto questo c’è ancora traccia sul Corso principale della città dove tra i palazzi ci sono ancora “buchi”, edifici mai ricostruiti e residui di macerie.

AVELLINO PERIFERIA – “Le aree commerciali all’inizio della città sono rimaste sempre nei prefabbricati fino a non meno di 4 o 5 anni fa quando sono stati eliminati definitivamente”, racconta Mario. Poi c’è la periferia di Avellino dove ancora persistono i prefabbricati rattoppati alla bene e meglio. Come nella zona che un tempo si chiamava “Campo Amalfi”. “Qui subito dopo il terremoto furono portati i prefabbricati leggeri, erano circa 200 forse – continua Mario – Poi furono tolti quelli e messi i prefabbricati pesanti. Si vede ancora la struttura di ferro e poi i pannelli di cemento agganciati. Sarebbero dovute essere strutture provvisorie, durare pochi anni e poi essere sostituite da case vere. Ma oggi sono ancora qui. “Si vedono ancora i pannelli che si sganciano e si aprono, l’umido che inzuppa gli interni e le lesioni di ogni tipo”.

Poi c’è il Rione Valle dove in via Pirone si vedono i caseggiati prefabbricati: alcuni sono stati da poco ristrutturati, altri versano in uno stato pessimo. “Dovevano essere tutti ristrutturati ma alla fine ne hanno rifatti pochi, giusto 3 o 4. Non è diversa la situazione di Rione Quattrograne dove alcuni edifici sembrano cadere proprio a pezzi, piegati al degrado più totale. Altri invece sono stati “ristrutturati”: “Li spogliano e ci mettono il cappotto di polistirolo – dice uno degli abitanti – Hanno fatto i rappezzi e ci hanno messo il polistirolo. In 40 anni non è cambiato niente. Sono case vecchie e c’è ancora l’amianto pericoloso per la salute”. Da una delle case più fatiscenti una signora sulla 80ina sta affacciata alla finestra. “Vivo qui da 36 anni – dice – ma sto aspettando che mi diano la casa nei palazzi ristrutturati. Non si sa quando ma prima o poi arriverà”.

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SERINO – È ancora più impressionante vedere come nella provincia di Avellino persistano ancora quelle casette prefabbricate che la solidarietà internazionale portò in quella terra martoriata dal Terremoto. I prefabbricati dell’epoca, quelli portati dagli austriaci, ci sono ancora. Anche se sono pochi sono ancora abitati da alcune famiglie, come nell’area di San Sossio a Serino, e in alcuni si sono addirittura impiantati delle attività commerciali che ancora persistono. “Il Comune di Serino non li ha mai tolti – racconta una signora che viva da sempre a Serino – Intorno agli anni ’90 il comune di Serino fu commissariato e partì l’ordine di abbattimento. Cosa che non avvenne mai. Di fatto le attività commerciali che ci sono dentro sono tutte abusive. Poi le case sono veramente terribili: dentro ci sono topi, serpenti e ci vivono ancora persone che non hanno dove andare. È una situazione da terzo mondo”.

CONZA DELLA CAMPANIA – “Qua non ci sta più nessuno. Sono rimasti solo i migranti di un centro accoglienza e il ristorante”, dice e alza il passo. L’uomo se ne va sulla via che sale tra due file di case diroccate, la strada che doveva essere il corso di Conza Vecchia e che arriva in una piazzetta tutta restaurata. Si vede in alto l’antica Compsa, il parco archeologico sottoposto a vincolo per ritrovamenti edilizi e urbanistici di epoca romana e preromana. E attorno le case sventrate, i balconi appesi, le crepe e i rovi che crescono dentro i muri.

L’epicentro, il 23 settembre 1980, fu calcolato a dieci chilometri da qui, dal borgo a 590 metri di altitudine. I morti furono 184. Si legge su un cartello: “Le sue scosse sono state comparate, per violenza ed effetti sulle strutture, con il terremoto che colpì Pompei nel 62 d. C.”. Un’intensità del X grado. Programmi integrati puntano oggi al recupero e al turismo eco-culturale e didattico.

Conza della Campania è stata costruita un chilometro più giù, a valle, località Piano delle Briglie. Una ragnatela di strade larghe, tutto pianeggiante, molte villette. Non c’entra niente con i paesi attorno: una geometria precisa in una terra di borghi arroccati. Poco più di mille abitanti, uno spopolamento costante. Quasi nessuno in giro: la Campania è Zona Rossa per l’emergenza coronavirus. Una donna in fila all’alimentari osserva da dietro la mascherina: la scossa è durata poco (90 secondi, ndr) ma è come se il terremoto non fosse mai finito. Ripete così a tutti, tutti quelli di fuori, ogni volta che le chiedono.

IL PARCO DELLA MEMORIA A S. ANGELO DEI LOMBARDI – “Dal terremoto in poi S. Angelo dei Lombardi si è spopolata sempre di più, rimarranno solo i vecchi. Abbiamo ricostruito le case più o meno uguali a prima ma non siamo mai più riusciti a ricucire quel senso di collettività di una volta”, dice Carmine, il barbiere del paese. A Sant’Angelo dei Lombardi le macerie sono nell’anima ma la voglia di ricordare è ancora più forte. Per questo motivo nell’area dell’ex convento di Santa Maria delle Grazie è stato costruito un vero e proprio Parco della Memoria. Laddove morirono circa 23 donne schiacciate dal terremoto ora sono stati piantati oltre 400 alberi in memoria delle vittime. Una lapide ricorda tutti i loro nomi. L’obiettivo è far nascere dalla memoria collettiva un concetto di comunità inclusiva con spazi e attività dedicati ai più deboli, inclusi i disabili. C’è anche un orto terapeutico dove potranno giocare tutti i bambini. È un parco completamente ecosostenibile dove c’è anche la panchina blu della rete internazionale di solidarietà per chi soffre di autismo. Un simbolo forte: la memoria della tragedia deve servire a ricucire tutta la società.

L’EREDITA’ SISMOLOGICA – Il Terremoto dell’Irpinia è stato il secondo più forte negli ultimi anni, secondo solo a quello del 1908 di Messina. È stato per l’Italia un importante punto di svolta per le conoscenze e la sismologia. Ne è convinto Giuseppe De Natale, Dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale Geofisica e Vulcanologia di Napoli. “All’epoca c’era l’idea che l’Italia fosse diversa za zone come l’America in cui le faglie sismiche si vedevano precisamente in superficie – spiega – Si pensava che le faglie sepolte, quelle che provocano i terremoti, non fossero in coincidenza con quelle che si vedevano in superficie. Quando ci fu il terremoto molti geologi andarono a cercare la faglia, ma non la trovarono. Solo nel 1984 uscì su Nature sulle tracce di faglia che generarono il terremoto irpino. Queste si trovavano nella zona di Monte Marzano, tra la Basilicata e l’Irpinia. C’erano anche altre tracce un po’ più a Sud, nella Basilicata. Poi furono fatti rilievi molto più precisi e riuscirono a descrivere tutte le tracce di faglia per una lunghezza di circa 40 km. Scoprirono che c’era uno scalino sul terreno che misurava un metro e venti circa, molto chiaramente visibile”.

Il terremoto del’Irpinia è stato anche quello che ha dato origine alla rete sismica Italiana. All’epoca chi gestì il terremoto, fu l’istituto che era più vicino, cioè l’osservatorio vesuviano. Ma da quel momento si sviluppò la consapevolezza che bisognava avere in Italia una rete sismica molto densa e fitta e nazionale che fosse centralizzata per poter dare subito l’allerta quando c’era un terremoto e comunicare agli enti di protezione civile dove intervenire per portare soccorso. “Sembra strano oggi – conclude De Natale – ma all’epoca già capire subito quale fosse l’epicentro del terremoto era una cosa fondamentale e anche vitale per salvare vite umane”. È con il 1980 che nasce l’Istituto Nazionale di Geofisica e la rete sismica nazionale italiana che oggi è una delle più all’avanguardia a livello internazionale. Fu da quel momento che fu creato l’organismo che ancora oggi scende in campo per combattere tutte le calamità: la Protezione Civile.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.