La voce cristallina e visionaria di Abraham B. Yehoshua, il grande scrittore israeliano scomparso esattamente un anno fa, ritorna in questo piccolo dramma (Il terzo tempio, Supercoralli Einaudi) che nella sua brevità condensa un enorme potenza profetica e ci regala un altro prezioso grano del rosario laico che Yehoshua ha snodato fin dagli anni Settanta. Quest’operina così densa, come fosse un atto unico, ruota attorno a due figure: una donna a cui è stato negato, con un trucco escogitato dal rabbino francese Modiano attratto da lei, il matrimonio con l’amato David Mashiah (nome fortemente emblematico, Re degli ebrei Messia); e il rabbino israeliano Shoshani chiamato ad ascoltare la storia e eventualmente trarne un giudizio.

Lei, Esther, non ha potuto sposare il giovane, che è iraniano, in base alle ferree regole dell’ebraismo che vietano l’unione tra una convertita e un discendente di sacerdoti: è lo statuto di convertita ingiustamente imposto con un trucco ad Esther a rendere impossibile il matrimonio religioso della giovane e se la coppia avesse avuto figli i loro discendenti non avrebbero potuto ufficiare nel Tempio ricostruito e non sarebbero stati ammessi alla celebrazione dei sacrifici. In mezzo alla relativa confusione del dialogo, interrotto troppo spesso dal rabbino o dal suo attendente, da chiavi che non si sa se aprano e telefonate improvvise, Shoshani ascolta con impazienza il garbuglio religioso evidentemente stupefatto e poi scosso e infine irato per l’ingiustizia caduta su di lei per mano di Modiano, suo avversario diretto: ma ecco che Esther gli rivela il suo rivela il suo progetto grandioso, l’edificazione del Terzo Tempio che gli ebrei preconizzano da millenni dopo la distruzione del Tempio per opera dei Babilonesi e dei Romani, un luogo nel quale si potranno condividere liberamente le spiritualità e le religiosità di tutti gli essere umani. Ma invece di immaginarne la ricostruzione come un evento da farsi a spese delle Moschee della Spianata, lei sviluppa il progetto di costruire questo Terzo Tempio di dimensioni modeste nelle vicinanze del cimitero del Monte degli Ulivi, insomma in un luogo diverso dallo storico “teatro” del conflitto tra arabi e ebrei.

In questo Tempio infatti non si offrirebbero sacrifici sanguinari bensì si intonerebbero cantici e salmi per accelerare la resurrezione dei morti sepolti nel più grande cimitero ebraico del mondo. In un’ottantina di pagine di formato ridotto, Yehoshua indica una prospettiva luminosa come risposta al buio che fa da sfondo alla sua terra perennemente devastata da odî, distruzioni, morte. Questo d’altra parte è stato fino alla fine l’assillo di questo scrittore enorme per statura morale e artistica. E in un certo senso Il terzo tempio suscita in noi l’ammirazione post mortem per l’anelito incontenibile alla ricerca di una Soluzione per il popolo ebraico e insieme per il popolo arabo, una Soluzione qui prospettata come proiezione fantastica della condizione di una donna caduta in una trappola – che metaforicamente è la trappola storica in cui è caduto il popolo d’Israele. Ma Yehoshua, da illuminato (illuminista, diremmo) intellettuale, ha sempre concepito la tragedia degli ebrei – come dire – a specchio -di quelle di tutte le popolazioni che la Storia ha reso inquiete, ed è per questo che kantianamente egli aguzza sempre il suo ingegno artistico nella ricerca di una Pace universale.

In questa piccola opera che si può considerare come un’ultima fantastica storia di pace e di giustizia al termine di un decennale viaggio letterario e politico, il lettore già appassionato di Yehoshua sentirà risuonare il dolce scorrere delle parole tipico del suo stile, appassionato e soave come certe musiche popolari intonate alla sera: ed è una bella occasione per prendere o riprendere in mano, in questa lunga estate, i suoi capolavori immortali e intravedere così la grande luce della parola.

Mario Lavia

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