La recensione
Tolo Tolo, nè buonista nè razzista: cari spettatori non vi meritate nemmeno Checco Zalone
Né buonista né razzista. Luca Medici, in arte Checco Zalone, nel suo esordio da regista, con il discussissimo film Tolo Tolo, è camp allo stato puro. Parodia esasperata, dolceamara, che armata di un’ironia al solito tagliente, si prende gioco del reale e di chi vorrebbe passare una serata a ridere e basta, come per un cinepanettone qualsiasi.
Un genere, il camp, fino ad oggi collegato per lo più alle macchiette del cinema e dell’avanspettacolo omosessuale, che tuttavia rivive perfettamente nelle contraddizioni marchiane dell’epopea trash in cui si imbatte Checco, sedicente imprenditore fallito, fuggito in Africa perché vessato dai debiti col fisco.
A mettere di fronte alla realtà l’uomo da niente, ma comunque in cerca del sogno che possa condurlo oltre la quotidianità, saranno gli incroci disturbanti: dal resort vacanziero isolato al centro del villaggio del terzo mondo, fino al paradosso dell’esplosivo arrivo dei miliziani dell’Isis nel bel mezzo della stralunata ricerca di una crema antirughe.
La sceneggiatura (scritta a quattro mani con Paolo Virzì) del film già campione d’incassi e destinato – chissà – a superare anche i record già abnormi del precedente lungometraggio Quo Vado, con queste geniali trovate narrative, sposta l’obiettivo dal Belpaese sempliciotto ma tutto sommato bonario dei capitoli precedenti, all’anima nera, assolutamente trasversale, di una nazione incattivita e depressa dalla continua ricerca di espedienti e all’inseguimento di improbabili identità marcate al punto da divenire esse stesse parodie di un’epoca.
Il neofascismo, il nazionalismo delle felpe, i porti chiusi, un razzismo mai dichiarato ma sul quale sogghignare, come pareva dal trailer ingannevole, sono il contorno deprimente nel quale scorre la storia di un bianco spaesato in mezzo ai neri, accomunato a loro nel grande viaggio attraverso la Libia, il deserto, il mare mostruoso dei naufragi dove si deve essere disposti a tutto pur di scamparla.
Le lezioni arrivano una dopo l’altra. Sullo sfondo un’Italia nella quale Checco non vuole proprio tornare: meglio l’Isis dell’Inps. Checco Zalone, fino ad oggi icona comica dell’uomo della strada, diventa così una maschera di cinismo e ironia che nei punti più malinconici ha bisogno di ripiegare su divertissement fumettistici per non uscire dal genere comico che resta pur sempre il metro del suo cinema.
Con Tolo Tolo, insomma, si ride e si pensa ma è la sorpresa di una realtà solo triste a lasciare il segno più della comicità. E il bersaglio del genio sì politicamente scorretto di Zalone (ma non come aveva immaginato l’ex ministro La Russa infuriato sui social) diventano così, sorprendentemente, proprio quelli che volevano sghignazzare senza pensieri, confusi dal trailer e offesi, a fine proiezione, dalla presa di coscienza inequivocabile del non averci capito nulla. Tanto da far tornare alla mente un altro regista, lui sì, impegnato e eternamente corrucciato, che potrebbe additare questi ingenui spettatori con un definitivo: non vi meritate nemmeno Checco Zalone.
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