Ex deputata del Partito Democratico, storica attivista per i diritti LGBTQ+, Anna Paola Concia vive a Francoforte e guarda l’Italia da un osservatorio europeo. Con lei proviamo a capire la natura — dirompente, controversa e autentica — della leadership di Giorgia Meloni.

Concia, partiamo dall’ovvio che a sinistra spesso si finge di non vedere: essere la prima Presidente del Consiglio in Italia, tra le più giovani e tra poco la più “longeva”, quanto pesa, simbolicamente?
«Ha rotto il tetto di cristallo. Questo è un fatto, non un giudizio politico. Possiamo criticarne le scelte, ma negare il valore simbolico di una donna a Palazzo Chigi è infantile e ipocrita».

Molte femministe non la considerano “una di loro”. È un discrimine dirimente?
«No. L’autorevolezza delle donne non passa necessariamente dall’autodefinizione “femminista”. Le leader si misurano su ciò che fanno. Meloni non viene dalla cultura femminista da cui provengo io, ma resta una donna volitiva e autorevole. Su politiche per le donne non ho visto svolte epocali, ma nemmeno disastri».

Esiste un “modello Meloni” per le nuove generazioni?
«Esiste ed è riconoscibile: autenticità, durezza quando serve, gusto per il conflitto politico, niente timore della polemica. Piaccia o no, è rimasta coerente con il proprio carattere: anche brusco, certo, ma vero. Questo, per molte ragazze, è un modello potente».

Lei ha vissuto la Germania di Angela Merkel. Il paragone è abusato o utile?
«Sono diversissime per storia e cultura politica, ma l’effetto-role model è comparabile. Per quindici anni qui ho visto bambine dire “da grande farò la cancelliera”. In Italia i modelli femminili di potere sono stati pochi: Meloni ha dovuto inventarsi un proprio canone».

Perché, secondo lei, molte donne di sinistra provano fastidio per Meloni?
«Perché è arrivata lei a Palazzo Chigi e non è “una di noi”. E perché non ha cercato scorciatoie: ha rifiutato l’idea che l’unico ascensore per le donne siano le quote. Quella schiettezza urta. Ma rivela anche un ritardo culturale della sinistra nel riconoscere la leadership femminile quando è “altrui”».

A proposito di quote rosa: lei le ha sostenute a lungo, Meloni le ha spesso contestate. Chi ha ragione?
«Le quote sono uno strumento, non un fine. Sono servite e servono in contesti chiusi. Meloni ha scelto un’altra narrazione: “mi affermo con le mie forze”. Non la condivido fino in fondo, ma prendo atto che il suo successo stesso apre spazi — anche per chi la pensa all’opposto».

Politica estera: le riconosce “la barra dritta”. Che cosa intende?
«Coerenza nelle alleanze occidentali, posizionamento europeista pragmatico, niente tentazioni isolazioniste. La vulgata la vuole “sovranista dura”, ma nel confronto con altri leader conservatori europei e americani oggi Meloni appare la più democristiana e temperata».

Comunicazione politica: Meloni disintermedia, parla diretta al pubblico, anticipa le domande. Virtù o vizio?
«È un animale politico che conosce i tempi del ciclo mediatico. I suoi video spesso arrivano prima delle domande. Ha imparato dal berlusconismo la centralità del leader, ma l’ha adattata alla grammatica digitale. È un vantaggio competitivo gigantesco: definisce il frame prima degli altri».

C’è un tabù nel riconoscere qualità all’avversario?
«Sì, ed è dannoso. Io sono fatta così: critico quando ritengo giusto, ma se vedo qualità le riconosco. Questo stigma del “non si dice” avvelena il dibattito e impedisce alla sinistra di capire il fenomeno Meloni per batterla politicamente, non caricaturalmente».

Caso personale, caso di scuola: il video con cui ha annunciato la fine della relazione con Giambruno. L’ha letto come debolezza o come forza?
«Come forza. Ha bruciato tutti sul tempo, si è riappropriata del racconto, ha dato — piaccia o no — un esempio di autodeterminazione. Molte donne ci si sono riconosciute».

Altro tema ricorrente: portare la figlia in alcuni viaggi di lavoro. Scandalo o normalità?
«Normalità. È una madre con un incarico totalizzante: quando possibile ha portato con sé la figlia. Lo fanno tante manager. Criticarla su questo fa perdere giorni a parlare di contorno, non di sostanza».

La sinistra — anche quella che lei conosce bene — ha un problema nel “fare squadra” tra donne?
«Sì. La misoginia in Italia non è monopolio della destra. Ho visto poca solidarietà femminile anche a sinistra. Costruire reti tra donne resta difficile, ma è indispensabile se vogliamo cambiare davvero».

Entriamo nei dossier interni: diritti, lavoro, welfare, scuola. Dove giudica insufficiente l’azione del governo?
«Sui diritti civili non ho visto il coraggio di un cambio di passo; su lavoro e scuola ci sono state misure prudenti, qualche segnale ma niente che trasformi l’impianto. È una linea di governo cauta, spesso attenta al consenso a breve. Ecco dove farei “il diavolo a quattro”: pretenderei politiche strutturali, non polemiche identitarie».

E sulle politiche per le donne?
«Mancano investimenti robusti su congedi, servizi educativi, parità salariale effettiva, prevenzione della violenza con fondi stabili e valutazione degli impatti. Non vedo smottamenti retrogradi, ma nemmeno la visione che servirebbe. È qui che si costruisce davvero l’uguaglianza».

Lei ha detto che “Meloni è la più democristiana dei sovranisti”. Come è cambiata rispetto al 2022?
«È più istituzionale, più attenta alla responsabilità di governo e meno alla testimonianza identitaria. Non coglierlo è un errore. La politica si giudica sul movimento, non sulle figurine».

C’è qualcosa che la sinistra dovrebbe “imparare” da Meloni?
«Due cose: disciplina comunicativa e coerenza identitaria. Non vuol dire copiarne i contenuti: vuol dire imparare a parlare con una voce sola, anticipare l’agenda, smettere di inseguire gli slogan degli altri e tornare a proporre visioni chiare su lavoro, diritti, crescita, scuola, sicurezza».

Schlein ha detto, in un contesto internazionale, che è una leader di estrema destra.
«Segno di provincialismo. Non si conosce l’estrema destra in Europa. Meloni è destra conservatrice. Schlein venga in Germania a vedere che cos’è l’estrema destra, chi è Alice Weidel, che con Afd è oggi il primo partito qui».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.