L’assedio israeliano su Gaza si intensifica. Le Israel defense forces hanno iniziato in questi giorni a penetrare nella Striscia con blitz mirati in preparazione dell’assalto finale. Attacchi notturni con fanteria e carri che servono a predisporre il terreno, scovare le postazioni nemiche e a raccogliere informazioni sulla eventuale presenza di tunnel e nascondigli. A muoversi sono state anche i commando dello Shayethet 13, che hanno compiuto un’operazione lungo le coste meridionali della regione palestinese per distruggere le strutture della forza navale di Hamas. La stessa componente che nei giorni scorsi aveva provato a infiltrarsi in acque israeliane e il cui tentativo è stato sventato dalle Idf.

Intanto, insieme alle incursioni terrestri nella Striscia, sono aumentati anche i bombardamenti su Gaza e con un’intensità crescente in vista dell’attacco via terra. Quelli della scorsa notte sono stati definiti senza precedenti e hanno provocato anche l’interruzione delle comunicazioni. L’Organizzazione mondiale della Sanità – che cita i dati del ministero della Salute di Gaza e su cui molti hanno espresso dubbi – parla di settemila morti dall’inizio dei raid. I rischi di mietere vittime civili sono evidenti. E su questo punto, a insistere sono sia la comunità internazionale quanto le forze israeliane, che accusano Hamas di usare la popolazione come un gigantesco scudo umano. I canali delle Idf hanno anche mostrato alcune postazioni lanciamissili posizionate vicino a edifici civili come scuole, moschee e asili. E a riprova di questo, venerdì l’esercito israeliano ha detto che il quartier generale di Hamas si troverebbe sotto l’ospedale centrale Shifa.

Accusa che l’organizzazione islamista ha smentito. Intanto, ad aumentare sono anche i pericoli che aleggiano sul Medio Oriente. Uno di questi è che l’incendio si propaghi, trasformando la risposta dello Stato ebraico ad Hamas in una guerra con più fronti. Le ultime notizie che sono giunte dalla regione fanno capire quale sia l’intensità del rischio. Il Libano, che rappresenta una sorta di “fronte ombra”, continua a essere al centro di manovre diplomatiche (come l’incontro a Beirut tra i vertici di Hezbollah, Jihad islamico palestinese e Hamas) e di una tensione fatta di lanci di razzi sullo Stato ebraico e risposte degli uomini delle Idf. Più a est a preoccupare è la Siria, sempre più coinvolta nell’incendio scatenato con l’orrore del 7 ottobre nel sud di Israele. Nel Paese alleato dell’Iran e parte integrante della cosiddetta “Mezzaluna sciita”, sono stati quattro gli attacchi contro basi statunitensi nell’ultima settimana. Sempre negli ultimi giorni, a colpire è stato anche l’esercito israeliano, che ha preso di mira infrastrutture militari ritenute collegate ad alcune manovre per colpire il Golan.

E sono stati registrati anche raid contro gli aeroporti di Aleppo e Damasco. All’alba di venerdì sono entrati in azione anche i jet statunitensi, che hanno bombardato siti usati dai Guardiani della rivoluzione iraniani, i Pasdaran, e da gruppi affiliati a Teheran nella parte orientale della Siria. Il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha affermato che gli attacchi sono “separati e distinti dal conflitto in corso tra Israele e Hamas”. Tuttavia, è abbastanza evidente che queste azioni avvengono come risposta ai lanci di droni e missili contro le basi statunitensi a loro volta originati dalla sfida dell’Iran a Israele e alle forze armate americane in Medio Oriente. Questo vale anche per l’Iraq, dove sono avvenuti ben 12 attacchi contro gli avamposti Usa. Venerdì ha parlato anche il leader sciita Moqtada al-Sadr, il quale ha chiesto al governo di Baghdad di chiudere l’ambasciata statunitense per il suo “sostegno incondizionato a Israele”.

A essere entrato in scena come nuovo inquietante fronte del fragile equilibrio mediorientale è poi l’Egitto. Dall’inizio della crisi umanitaria di Gaza, l’Egitto è stato posto sotto i riflettori soprattutto per la questione del valico di Rafah e il conseguente dossier sul passaggio degli aiuti verso la regione assediata controllata da Hamas e circondata dalle forze armate israeliane. Ora però il coinvolgimento egiziano rischia di essere diverso, dal momento che venerdì sono avvenute due esplosioni, una a Taba e una Nuweiba, entrambe causate dalla caduta di droni kamikaze. Per Israele e per alcune fonti di stampa regionali non vi sono dubbi. Come ha affermato il contrammiraglio Daniel Hagari, portavoce delle Tsahal, dietro le esplosioni avvenute in Sinai “ci sono i ribelli Houthi dello Yemen”.

Il coinvolgimento di questa milizia sciita all’interno del caos scaturito dopo l’attacco di Hamas a Israele non è una novità assoluta. In precedenza, ad avere destato scalpore era stata la notizia che una nave statunitense in navigazione nel Mar Rosso, lo Uss Carney, aveva intercettato droni provenienti dallo Yemen e probabilmente diretti in Israele. Secondo alcune indiscrezioni, i velivoli erano diretti verso l’area di Elat, il principale porto meridionale dello Stato ebraico, e uno di questi sarebbe stato intercettato anche dall’Arabia Saudita. Mentre le fiamme iniziano a lambire anche altri Stati del Medio Oriente, la diplomazia cerca di continuare il proprio difficile lavoro muovendosi su due binari: la liberazione degli ostaggi e la ricerca di una tregua umanitaria.

Sotto il primo aspetto, interessante è soprattutto il ruolo del Qatar che, dopo avere ospitato i dirigenti di Hamas, sembra voler recidere i legami con la sigla palestinese (anche se su questo in Israele predicano cautela). Anche dagli Stati Uniti, dove Joe Biden ritiene prioritaria la vita dei sequestrati, si inizia a esprimere un cauto ottimismo sulla sorte dei rapiti. Sul secondo punto, quello della tregua umanitaria, a parlare è stato di nuovo il presidente francese Emmanuel Macron, che si è augurato un’iniziativa di questo tipo “per proteggere le popolazioni più fragili e nello stesso tempo per finalizzare le discussioni di negoziazione riguardo gli ostaggi”