Il governo ha finalmente deciso di candidare l’Italia, e in particolare Milano, ad accogliere una delle tre divisioni del Tribunale Unificato dei Brevetti. Si tratta di un ufficio giurisdizionale di grande importanza, che giudicherà nelle cause in materia di brevetti europei. Originariamente era previsto che il tribunale fosse ripartito in tre sedi giudicanti a Parigi, a Monaco di Baviera e a Londra, ma l’uscita del Regno Unito dalla Ue avrebbe reso vacante la sede londinese: di qui, la corsa di tutti per aggiudicarsi un posto in prima fila nella gestione di questo rilevantissimo comparto della giustizia in campo economico e tecnologico (per non parlare dell’indotto di cui godrebbe la città che ospitasse una divisione del tribunale unificato, uno scherzetto da centinaia di milioni all’anno). In questa corsa, l’Italia, che pure è la seconda manifattura d’Europa, ha sempre arrancato, anzi in pratica nemmeno vi ha mai partecipato, lasciando l’impresa italiana esposta al rischio di essere processata all’estero, in lingua straniera e con costi che si calcolano superiori da cinque a trenta volte rispetto a quelli normalmente correnti qui da noi.

I provvedimenti che il tribunale unificato può assumere nei confronti di chi sia accusato di violazione brevettuale sono molto incisivi: divieto di produrre e commercializzare i propri prodotti in tutti i Paesi, sequestro dei beni aziendali, blocco dei conti correnti e degli “averi” del presunto contraffattore. Si provi a pensare all’effetto di simili provvedimenti – già gravi e invasivi per conto loro – se dovessero concentrarsi in un’ordinanza scritta in francese o in tedesco che arriva tra capo e collo di un’impresa di Sondrio, di Modena o di Salerno chiamata a tutelare lassù, in evidente condizione di minorità difensiva, le ragioni della propria attività.

Occorre precisare che questo nuovo sistema è in sé abbastanza discutibile, perché si impianta in Europa tramite una grave forzatura del diritto comunitario che sottrae anziché concedere potestà giurisdizionale ai giudici dei Paesi europei: ma il sistema ormai c’è ed è importante che l’Italia vi partecipi da protagonista anziché in posizione soggiogata. Significativamente, il Regno Unito, a suo tempo, sorvegliò attentamente le proprie scelte e il Parlamento inglese, con un rapporto del 3 maggio 2012, raccomandò al governo di far presenti alle controparti nei negoziati internazionali le forti preoccupazioni degli operatori di settore, specie le piccole e medie imprese, e di ottenere almeno l’assegnazione di una divisione del tribunale: ciò che gli inglesi, appunto, ottennero.

Ora, con Londra fuori dai giochi, sarebbe il nostro turno. C’è chi si è mosso ben più in fretta e con ben altra potenza ufficiale: si pensi al fatto che qualche settimana fa il governo tedesco ha proposto che le competenze della sede londinese siano “accorpate” a quelle di Parigi e di Monaco. E tanti saluti a un Paese, il nostro, che in tal modo perderebbe anziché acquistare ragioni di appartenenza all’Europa, diventandone una specie di landa provinciale. Ovviamente speriamo che non sia così: ma la candidatura italiana, che tardivamente e abbastanza timidamente ha fatto capolino ai margini di un Consiglio dei ministri di giovedì scorso, rischia di risolversi in un conato velleitario in vista di un appuntamento – il 10 settembre a Bruxelles – dove potrebbero essere ufficializzate decisioni già prese altrove e da altri, con l’Italia puntualmente esclusa.