L’Anm (Associazione nazionale magistrati) è contraria all’attribuzione del voto agli avvocati nei Consigli giudiziari sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, perché determinerebbe interferenze con l’indipendente esercizio della funzione giudiziaria. A chi fa notare che anche il pubblico ministero è parte del processo, ed ancora prima del procedimento, dove rivolge proprio al giudice le sue richieste e che, quindi, l’autonomia del giudice potrebbe essere compromessa anche dal voto del pubblico ministero, i magistrati rispondono che il paragone è improprio, in quanto giudici e pubblici ministeri fanno parte entrambi dell’ordinamento giudiziario, definito dalla Costituzione come autonomo e indipendente da ogni altro potere.

Sul punto portano come esempio l’avvocato che è stato il giorno prima contraddittore del pubblico ministero, ovvero abbia visto condannato il suo assistito dal giudice, come potrebbe essere imparziale o neutrale nell’esprimere il suo voto? Riflessione del tutto corporativa, alla quale può facilmente replicarsi che anche il pubblico ministero, certamente in più occasioni dell’avvocato, può vedere respinta una richiesta di misura cautelare o di rinvio a giudizio, ovvero una di condanna dal giudice di cui in seguito dovrà valutare la professionalità! L’argomento è tornato di attualità dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il quesito referendario sul voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. La pronuncia chiarisce che non vi è alcun impedimento di natura costituzionale a consentire anche ai membri laici del Consiglio giudiziario il diritto di voto. Vengono, dunque, smentite le argomentazioni dell’Anm che evidentemente intende la necessaria e giusta indipendenza come intoccabilità, inattaccabilità. Loro come unici depositari di una professionalità che non gradisce interferenze esterne. Gli altri, invece, portatori d’interessi propri. In questo mondo volutamente chiuso, abbiamo recentemente appreso – ma era ai più noto – che il livello di affidabilità è inversamente proporzionale ai veleni e ai rancori dei protagonisti.

Per i non addetti ai lavori, va precisato che i Consigli giudiziari sono organismi territoriali composti da magistrati e, dal 2006, anche da membri esterni: avvocati e professori universitari in materie giuridiche. Questa componente laica, che rappresenta un terzo dell’organismo ed è quindi comunque minoritaria, fa però da spettatore, cioè è esclusa dalle discussioni e dalle votazioni, partecipando unicamente alle decisioni relative alle tabelle di composizione degli uffici e alle funzioni di vigilanza. Circostanza questa che contrasta con il meccanismo che governa il Consiglio Superiore della Magistratura, dove i componenti laici hanno gli stessi diritti di quelli togati. Csm che, dopo il parere espresso dai Consigli giudiziari, deve esprimere il giudizio definitivo. Verdetto che, però, si fonda essenzialmente sulla valutazione operata dal Consiglio giudiziario. Va, altresì, precisato che gli ambiti in cui vengono espressi i pareri sono, oltre alla valutazione di professionalità dei magistrati, i criteri di assegnazione alle singole sezioni dell’ufficio, l’incompatibilità, gli incarichi extragiudiziari, il passaggio di funzioni, le attitudini al conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi.

I Consigli giudiziari, inoltre, vigilano sul corretto funzionamento degli uffici del distretto, segnalando eventuali disfunzioni al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministro della Giustizia. Si fornisce, quindi, un contributo per il migliore funzionamento degli uffici collocati nel distretto della Corte di Appello. La volontà di escludere il voto dei fruitori naturali del “servizio Giustizia”, cioè gli avvocati – quali rappresentanti dei loro assistiti la cui vita, gli affetti, il lavoro, dipende proprio da come il magistrato esercita la sua funzione – è, pertanto, inconcepibile. Nessuno come gli avvocati conosce le qualità e i difetti dei magistrati e le problematiche che affliggono gli uffici giudiziari. Voler escludere l’avvocatura dalla discussione e dal voto, è un ulteriore segnale di superbia e di prepotenza corporativa, che non gradisce estranei in “casa propria”. Un atteggiamento culturale del tutto fuori luogo, dimenticando che anche il difensore ha le chiavi del Palazzo e quando non vi entra i luoghi sono oscuri… e nel buio tutto può accadere.