In questa lunga intervista il dottor Sebastiano Ardita, Consigliere togato del Csm, già Direttore dell’Ufficio Centrale Detenuti e Trattamento del Dap, ci dice molte cose importanti. Innanzitutto boccia la proposta Cartabia del sistema maggioritario per l’elezione dei consiglieri del Csm: «Si aggraverebbe la situazione fino al parossismo». Oltre a ciò, in questo momento la politica non è in grado di fare nessuna riforma: «Prova ne è l’incapacità di riformare il Csm in modo da scontentare i potentati interni alla magistratura». E sulla riforma del processo penale aggiunge: «manca una direzione chiara. Sarebbe stato meglio depenalizzare». Inoltre l’esercizio della giustizia «non deve essere condizionato dai media o dai poteri forti». Infine sulle carceri: «Aumentare il ricorso alle misure alternative ». Fuori ruolo e valutazioni di professionalità? «Riforme importanti da fare».

Come legge i risultati del referendum indetto dall’Anm?
Li leggo nel modo più semplice possibile: più di un quarto degli iscritti alla Anm è a favore dell’attuale sistema di elezione ed a ciò che ne consegue; poco meno di un quarto è apertamente contro il dominio delle correnti e vuole il sorteggio; e la metà è indifferente al problema, altrimenti sarebbe andata a votare. Inoltre solo una minima parte dei votanti vorrebbe un sistema maggioritario che farebbe sparire le opposizioni e consegnerebbe tutti al governo assoluto delle oligarchie dei gruppi.

Secondo Lei la politica dovrebbe, e se sì in che modo, tenere conto dell’esito del voto?
La politica dovrebbe agire unicamente nell’interesse dei cittadini e dei valori costituzionali. Non c’era bisogno di guardare all’esito del referendum per capire che adottando il sistema maggioritario si aggraverebbe la situazione fino al parossismo. Non mi capacito di come possa essere venuto in mente di proporre il sistema maggioritario con collegi uninominali.

A suo parere, che rapporto c’è ora tra la magistratura e la politica? Quest’ultima potrebbe approfittare del momento di debolezza della prima per fare delle riforme sgradite e/o non necessarie?
In teoria è possibile. Ma non me la sento di avallare questa tesi per il semplice fatto che il primato della politica in una democrazia si giustifica nell’interesse dei cittadini. Il valore più importante è l’indipendenza dei magistrati che operano sul territorio rispetto alla politica ma non solo, anche rispetto al potere interno. E non mi va di utilizzare come uno slogan il pericolo che la politica cattiva possa incidere sulla giustizia che invece funziona bene. Perché questo slogan è stato utilizzato anche per mantenere in vita il sistema delle correnti. Detto ciò ho l’impressione che la politica in questo momento non sia in grado di fare nessuna riforma. Prova ne è l’incapacità di riformare il Csm in modo da scontentare i potentati interni alla magistratura.

A proposito di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, crede anche lei che siamo in un tale ritardo che forse si farà solo in tempo a elaborare una nuova legge elettorale?
Credo che siamo in ritardo per tutto.

L’Unione Camere Penali chiede due cose principalmente: valutazioni di professionalità, tenendo presente anche gli esiti, e riforma dei fuori-ruolo. Che ne pensa?
Penso che siano riforme importanti. In particolare il problema dei fuori ruolo va affrontato in modo radicale. Nelle funzioni non pertinenti alla giustizia andrebbe esclusa la possibilità del fuori ruolo, mentre in altri settori la presenza di magistrati si è rivelata indispensabile. Occorre però essere consapevoli che la cooptazione in ruoli di vertice per nomina politica potrebbe porre gli stessi problemi che pone l’impegno politico in sé. Per questi casi, anziché limitare nel tempo l’utilizzo dei magistrati che in certi settori è indispensabile, si potrebbe consentire loro di optare per rimanere definitivamente nei ranghi dell’amministrazione.

Conosciamo la sua sensibilità per la questione carceraria. Dopo quasi vent’anni, nelle carceri ancora si applicano le circolari sul trattamento dei detenuti che aveva scritto, regolamentando per la prima volta il funzionamento delle aree educative delle carceri. La fotografia è quella di un carcere sempre più affollato, aumento dei suicidi, covid. Alcune strutture, ha detto la Ministra, gridano vendetta. La radicale Rita Bernardini con i suoi scioperi della fame, Giachetti e il Pd propongono soluzioni immediate. Per Lei quale sarebbe la strada per fronteggiare questa emergenza?
È un discorso lungo, occorrono più azioni: aumentare il ricorso alle misure alternative; evitare di usare il carcere come contenitore del disagio sociale; depenalizzare facendo della detenzione l’extrema ratio; investire su nuove strutture pensando ad una architettura che si presti al trattamento; ma soprattutto investire sul personale. Un carcere diventa civile se agenti e funzionari lavorano in condizioni civili e godono della piena fiducia dei cittadini e delle istituzioni. Se vengono abbandonati a se stessi, tenderanno a farsi giustizia da sé. Come è accaduto nella deprecabile vicenda di Santa Maria Capua Vetere.

Perché ha votato No alla riconferma di Curzio e Cassano?
Perché, come ho avuto modo di spiegare, nella motivazione approntata a tempo di record mancavano a mio avviso gli argomenti necessari a colmare le lacune e le contraddizioni rilevate dal Consiglio di Stato. Abbiamo il dovere di rispettare le sentenze nella forma e nella sostanza.

Come si risolve la frizione tra Csm e Consiglio di Stato? La proposta di Violante per un’Alta Corte sarebbe proponibile?
Non c’è nessuna frizione da risolvere, le questioni si risolvono rispettando le regole previste per l’esercizio del controllo di legalità degli atti. Dobbiamo prestare a questa funzione lo stesso rispetto che pretendiamo per le nostre decisioni.

Concorda con chi sostiene che il compromesso politico ha svilito la portata delle riforme appena attuate? Oppure crede che quella del processo penale sia una buona riforma?
La riforma del processo penale manca di una direzione chiara, perché non incide né sull’efficacia né sulle garanzie, se non travolgendo a propria volta l’efficacia. Sarebbe stato forse possibile depenalizzare o agire sulle procedure, anziché porre dei tempi massimi di durata dei giudizi, senza porsi il problema delle ragioni per le quali i processi durano tanto.

Primi mesi di Cartabia: che giudizio dà del suo operato?
Discutiamo di sistemi normativi, non spetta certamente a me giudicare l’operato di un ministro.

Nel suo intervento all’inaugurazione dell’Anno giudiziario ha detto: «C’è bisogno di garantismo, ma deve essere un garantismo che parta dal basso, che riguardi i più deboli, che non si presti ad essere utilizzato da chi comanda nella dimensione del crimine mafioso, della grande finanza, o delle responsabilità pubbliche ed istituzionali». Cosa intendeva? Il garantismo non vale per tutti, sempre, dalla fase processuale a quella di esecuzione della pena?
Volevo dire che il richiamo al garantismo – che dovrebbe riguardare tutti – finisce per essere utilizzato solo a difesa dei soggetti più potenti. Ogni giorno migliaia di persone che vivono nel disagio infrangono la legge e per loro non c’è scampo. Se qualcuno dei responsabili della mala amministrazione che ha prodotto quel disagio è chiamato a risponderne si levano gli scudi. Detto ciò il mio richiamo al garantismo riguardava più in generale le fondamenta stesse della esperienza giuridica che ha come scopo l’inclusione e la pace sociale. Era un modo per dire che la giustizia non può essere materia di potere o terreno di scontro. E che il suo scopo non è colpire qualcuno, né il suo esercizio deve essere condizionato dai media o dai poteri forti. Ecco perché bisogna difendere l’indipendenza dei magistrati, di coloro che rischiano per aver portato alla luce verità scomode sui potenti o per avere avuto il coraggio di assolvere o di scarcerare quando la piazza chiede giustizia sommaria, come nel caso del gip di Verbania. E questo chiaramente senza scendere nel merito giudiziario delle questioni. Un autogoverno sganciato dalla gestione del potere e dal condizionamento delle correnti riuscirebbe meglio in questo scopo.

In merito alla recente decisione della Consulta sulla corrispondenza tra detenuti e avvocati, commentando il paragrafo 4.4.2. della decisione, il professor Manes in una intervista a questo giornale ha detto: «Finalmente si riconosce – in tempo di populismo penale, di retorica giustizialista, di discorso becero che addirittura tende a vedere nell’avvocato un sodale del proprio assistito – che l’avvocato prima di difendere cause e persone – prima e più in alto – difende il Diritto». Concorda?
Concordo sul principio, oramai consolidato da anni, che la posta diretta ai difensori non si può aprire. Peccato che la situazione concreta che ha dato luogo alla sentenza non aveva nulla a che vedere col “controllo” della corrispondenza. Nel caso in esame un detenuto aveva consegnato all’amministrazione, chiedendo che venisse recapitato a sue spese, un testo di telegramma che conteneva un messaggio potenzialmente pericoloso. La Corte ha ragionato come se la decisione di trattenerlo fosse conseguenza del controllo della corrispondenza. Ma qui si trattava da parte dell’amministrazione di compiere un adempimento con contenuto giuridico, per conto di un detenuto, che avrebbe potuto avere delle conseguenze pericolose. Dire che l’inoltro avrebbe dovuto avvenire comunque, solo perché il telegramma era diretto ad un difensore, credo provi troppo.