Il dibattito iniziato dall’intervento di Gianfranco Pellegrino nei giorni scorsi sul Domani ha due meriti: riporta al centro dell’attenzione la necessità di uscire dall’angolo della sterile polemica politica pro o contro le politiche green di Europa e Stati Uniti, per tornare a concentrarsi sui temi che sono davvero urgenti. Inoltre, mette il dito nella piaga senza scorciatoie: oggi l’ambientalismo suscita più insofferenza che attenzione e non riesce a uscire dall’immagine che si è cucito addosso, quella di un’ideologia intransigente, penalizzante, divisiva e impraticabile. Cui la propaganda negazionista affibbia anche lo stigma, che ha un’ottima resa sul piano elettorale, di essere un privilegio per élite woke che odiano l’Occidente e si credono una casta di salvatori del mondo.

Greta Thunberg con la kefiah palestinese

I mea culpa tardivi lasciano il tempo che trovano ma di certo serve riflettere sull’evoluzione di un movimento che ha abbracciato indiscriminatamente una serie di rivendicazioni sempre più radicali e sulla percezione di distacco dalla realtà che si riflette ormai su tutte le battaglie ambientaliste. L’immagine di Greta Thunberg con la kefiah palestinese rappresenta la sintesi più evidente di questa deriva che porta a buttare via il bambino con l’acqua sporca. Occorre tornare al punto di partenza: un ambientalismo diverso non solo è possibile ma necessario. O, meglio, persino la stessa definizione di “ambientalismo” va rivista.

La definizione

La questione vera è, infatti, la stessa sollevata di recente da un intervento di Paola Concia sul tema dei diritti: aver scambiato l’ecologia con una piattaforma programmatica di matrice massimalista. L’ambientalismo in questi anni ha abbracciato e incluso battaglie che sarebbe stato meglio tenere distinte benché sacrosante nel contenuto. È un fatto incontrovertibile che le fasce più deboli della popolazione sono destinate a subire maggiormente le conseguenze delle emergenze ambientali.

L’ambientalismo sepolto

Ma ha ragione Pellegrino: l’ambientalismo è ormai sepolto da una serie di errori tattici e di comunicazione ma soprattutto dalla scelta di porsi come un’ideologia organica e totalizzante, un neo-marxismo che ha tolto alle battaglie ambientali quella specificità e quella imparzialità, quell’equilibrio che non è neutralità ma intelligenza, che avevano aiutato il successo elettorale e di consenso dei primi partiti ambientalisti in Europa e in generale del movimento ecologista.

Ripartire non è semplice

Oggi questo stesso movimento ha smesso di avere una vocazione trasversale, riformista, per diventare depositario di una prassi velleitariamente “rivoluzionaria” o, quantomeno strettamente rivendicativa. Alienando da sé quella parte di opinione pubblica, certamente consapevole delle emergenze ma stanca di essere colpevolizzata o indottrinata. Ripartire non è semplice. Bisogna tornare alla specificità e alla concretezza dei temi, a proposte credibili, possibili, vicine a ciò che le persone ritengono prezioso. Occorre ripartire dalla cura di ciò che è tangibile, vicino e mettere in secondo piano le strategie del consenso. Se l’ecologismo vuole rinascere non può che partire dal pragmatismo e dal buon senso riformista.