Libro appassionato e incalzante, Una storia d’amore. Lettera a mia figlia transgender (add editore, pp.372, euro 18, traduzione di Chiara Brovelli) è a firma dello pseudonimo Carolyn Hays, a velare l’effettiva identità di una nota scrittrice statunitense. Ciò serve a tutelare intime ragioni familiari: perché il libro, strenuamente, fieramente autobiografico, è tutto indirizzato alla figlia di colei che scrive, una, oggi adolescente, transgender. A chi legge è richiesto, col vigore impellente dell’amore materno, di concentrarsi davvero ad ascoltare, di fermarsi davvero per comprendere, di aprire davvero il cuore al miracolo dell’esperienza irripetibile che la vita dell’individuo, di ogni individuo, dispiega, che l’identità di genere di ogni persona dischiude.

La lettura di questo libro farà bene alle moltissime persone che in Italia continuano a non sapere nulla del mondo transgender, o a nutrire convinzioni del tutto generiche, costruzioni approssimate fatte di scarni concetti mal interpretati, ancor peggio interiorizzati. E di illazioni, chimere, fantasie, paure ancestrali del babau si sono alimentate molte delle discussioni sorte a partire dal naufragato Ddl Zan e dalla descrizione del concetto di identità di genere ivi contenuta. Carolyn Hays, in un modo spesso disordinato, sempre disorganico – che talvolta ha irritato i miei deliri di categorizzazione del pensiero – invece va solo ascoltata come qualsiasi madre in quanto portatrice del diritto di raccontare dettagliatamente l’esperienza della sua bambina. Di un bambino, ultimo di quattro figli, che da quando ha tre anni rivendica chiaramente di essere una bambina. Lo dice ai genitori, con estrema naturalezza. Agli amichetti all’asilo. Ai nonni. Ai due fratelli maschi, Isaac e Tate, alla sorella Sophie. Alle maestre. E allora i genitori devono cimentarsi con l’uso corretto del pronome. Con il percorso di ri-creazione del nome stesso del proprio figlio. E con, soprattutto, la percezione degli altri. Dirlo, non dirlo? Se dirlo, cosa dire, come dirlo? Dove inizia la dimensione del segreto da svelare senza vergogna? Dove ritrovare, invece, la dimensione della privacy quale diritto individuale fondamentale a beneficio di chi si avvia in un percorso di transizione e della sua famiglia?

Il cuore del racconto è un colpo alla porta. In uno Stato del Sud degli Stati Uniti d America. Un uomo viene mandato dai servizi sociali per verificare se Carolyn e il marito Jeff siano buoni genitori. Già, perché qualche adulto zelante e anonimo ha denunciato la situazione, non potendo sopportare oltre lo spettacolo increscioso di un bimbo nato biologicamente maschio, ma “trattato” da bambina: uno zelo che ha temuto e giudicato l’inadeguatezza genitoriale dei due, ritenendola all’origine dell’omosessualità del figlio (confondendo così, grossolanamente – ma quanto ancora frequentemente questo accade! – omosessualità e transessualità). Quest’avvenimento produce un terremoto famigliare, lo spostamento in uno Stato del Nord alla ricerca di un ambiente più tollerante retto da specifiche norme antidiscriminatorie e, più di tutto, la sensazione di paura per essere esposti come carne nuda e senza protezioni al giudizio del mondo: un giudizio frettolosamente ridotto a percezioni generiche, sommarie, infarcite di pregiudizi.

Un giudizio che fa rigorosamente a meno di uno sguardo empatico sulla persona, sul suo corpo, sulla sua concreta dimensione di vivente nel mondo, con lo splendore delle sue relazioni, delle sue invenzioni, delle sue manifestazioni: “La gente penserà di poter discutere apertamente del tuo corpo. Non esiste. Questo è un atto di oggettificazione, anche quando viene mascherato da progressismo. È una cosa legata alla storia delle donne transgender, che è la storia di avere poche opzioni, di vivere ai margini della società. La storia di prostituzione e lavoro sessuale è inestricabilmente legata alla storia americana di essere una donna trans. Qui dovremmo sempre usare delicatezza, perché manca da troppo tempo”. Vi sono pagine toccanti, sempre dentro i limiti di una misura giusta, che sa far interrogare il lettore, spera di produrre empatia, auspica di provocare consapevolezza. Senza piagnistei, senza recriminazioni inutili o rivendicazioni velleitarie.

Come accade in questo passaggio, lieve e pesantissimo al contempo, che di una visione giusta e consapevole offre una sintesi perfetta, lente utile per osservare le questioni di genere: “Anni dopo mia madre mi avrebbe detto: ‘Noi la vediamo come una bambina, nient’altro. Non è una trans, ai nostri occhi’. Sapeva che era un lusso che noi genitori non potevamo permetterci. A noi deve importare, ma è meraviglioso che non sia importante per loro”. L’aspetto per me più significativo di questa lettera d’amore è che la madre che racconta è cattolica: tutto quanto si sforza di articolare, in modo personale e secondo coscienza, riguardo alla contraddizione tra il magistero e la vita concreta di sua figlia, è uno dei tanti, recenti atti di “contemplazione attiva” dei cattolici pensanti contro le rigidità della dottrina. Citando San Francesco di Sales (“Siate quello che siete, e siatelo bene”), Carolyn esprime benissimo ciò che, quando ho incontrato persone transgender, ho sempre, sempre e nettamente, provato: “nello starti accanto sono stata costretta a considerare chi sono”.