Economia
USA-Cina, l’arte del deal nell’era Trump è un ricatto riscrive le regole. L’Europa cerca di salvaguardarsi
“Non ricordo quale funzionario dell’Unione europea abbia mandato questa lettera minacciosa ad Elon Musk che in pratica dice che lo arresterà se non blocca Donald Trump dalla piattaforma X,” attaccava qualche settimana fa JD Vance, il vice-presidente eletto degli Stati Uniti. “Ciò che l’America dovrebbe rispondere è che se la NATO vuole che continuiamo a sostenerli, perché non rispettate la libertà di espressione?”. Il ragionamento è la versione estrema di un meccanismo al quale dovremo cominciare ad abituarci per i prossimi quattro anni.
Il mercato interno
Fare leva sul potere del mercato interno di 450 milioni di consumatori europei con la minaccia di chiuderlo a chi si rifiuta di conformarsi è stata una delle classiche (e uniche) armi dell’Unione europea: il cosiddetto “effetto di Bruxelles”, nelle parole della giurista finlandese Anu Bradford. È lo stesso meccanismo che rese Mario Monti celebre nella veste di zar per la concorrenza al tempo delle sue epocali battaglie nei primi anni 2000 contro Microsoft e General Electric. Nella fattispecie, il funzionario Ue in questione è Thierry Breton, ormai ex Commissionario europeo per il mercato interno, che si appellava al regolamento europeo sui servizi digitali per richiedere alle piattaforme di proteggere i consumatori dalla disinformazione.
Il ricatto atomico
Vance contrappone a questa logica un ricatto atomico nel vero senso del termine, ovvero il ritiro del supporto americano alla NATO. Questo modo di trattare mette a nudo i limiti del potere negoziale di un Continente, l’Europa, che è oggettivamente più piccolo e marginale di quanto lo fosse venti anni fa. Dall’altro, mette in chiaro quale sarà l’arte del “Deal” (accordo) in questa nuova era Trump: una grande transazione spesso fra questioni completamente scollegate. Come descritto in un nuovo libro degli economisti George Papaconstantinou e Jean Pisani-Ferry, “New World, New Rules” (Agenda Publishing), sembrano lontanissimi i tempi di Bretton Woods, l’architettura costruita su organizzazioni come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario internazionale e su quella razionalità dei mercati poi demolita dalla crisi economica e finanziaria cominciata nel 2008.
Il precedente Putin
Se questa prospettiva non è esattamente delle più rosee, non dovremmo disperare. I più ottimisti ricorderanno quando Putin, allora ancora nelle improbabili vesti di riformatore, acconsentì nel 2004 a firmare il protocollo di Kyoto sul cambiamento climatico in cambio dell’ingresso della Russia nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Un altro scambio ma non a somma zero per un paese afflitto dalla dannazione degli idrocarburi ma che cercava disperatamente di integrarsi nell’economia globale del ventunesimo secolo. I tempi ovviamente sono cambiati, e Putin ormai da vent’anni è un reazionario che prova a ricostruire il mondo del diciannovesimo secolo. La vittima sacrificale sarà l’Ucraina, che subirà il Deal trumpiano in termini di sovranità, protezione militare e forse anche integrità territoriale. La sfida titanica per noi europei sarà quella di barcamenarci fra Stati Uniti e Cina, le uniche due vere potenze di questo mondo, con visioni diametralmente opposte sull’equilibrio fra potere pubblico e privato. I primi si preparano ad una stagione caratterizzata da un’ingerenza senza precedenti delle grandi aziende ed in particolare del Big Tech nella gestione della cosa pubblica; l’altra continua imperterrita sulla strada del capitalismo di Stato. L’Europa sta come sempre nel mezzo e dovrà cercare di salvaguardare quanto acquisito in termini di accordi multilaterali, per il semplice motivo che è l’unico modo per aspirare ad una qualche influenza.
Dovrà adattare il suo modus operandi ad un (dis)ordine mondiale che come scrivono Papaconstantinou e Pisani-Ferry è fondato sulla rivalità geopolitica, basi valoriali fragili ma anche prassi sorprendentemente efficienti. Sarà imprescindibile trovare isole di cooperazione possibile, con coalizioni per salvare quanto più possibile sei cosiddetti beni pubblici globali. Certo è curioso che dopo 35 anni da quando il politologo Francis Fukuyama proclamò l’ascesa della democrazia liberale come punto finale dell’evoluzione ideologica del genere umano, sembra che la fine della Storia sia quella di tornare ad un rudimentale baratto.
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