«Si prevede che sarà un summit breve, cui seguirà un comunicato altrettanto breve». Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation di Roma, fa una stima di quello che sarà il vertice Nato di oggi e domani a L’Aja. «Tutto ruoterà intorno a quel 5% di spese a cui arrivare. Un numero magico reiterato da Rutte».

Politi, oggi è la «prima» di Trump di fronte all’Alleanza. Cosa bisogna aspettarsi?
«Il nodo è sempre quello: i soldi. Ma bisogna smettere di ridurre il discorso alla formula magica del 5%. La vera domanda è quanto siano sostenibili queste spese militari aggiuntive. Anche per gli Stati Uniti. L’ultima stima dell’Iiss (International Institute for Strategic Studies, think tank di Londra, ndr) diceva che, rispetto al 3% aggregato di spese militari, gli Usa impiegano lo 0,84% del loro Pil per la sicurezza in Europa. Se non si tiene il punto di questa differenza, si rischia di contare insieme le pere e le mele. Soluzione di comodo, ma inesatta».

Però bisogna vedere le voci di spesa. Per esempio, gli Usa hanno un arsenale nucleare.
«Quello è innanzitutto nazionale. L’arsenale Nato si riduce ad alcuni ordigni. Sì, è stato modernizzato, ma solo per lo stretto necessario».

Quindi come si spendono questi soldi?
«In modo frammentato purtroppo. Per esempio, ReArm Europe, che con l’Alleanza non c’entra nulla, non è un programma di riarmo, come temono alcuni, ma un sistema di spesa a pioggia. Così non va bene. La Nato nasce per provvedere ai suoi alleati, secondo parametri definiti tra noi e gli Stati Uniti, in termini di deterrenza e Difesa contro un attacco sovietico. Punto».

All’Unione Sovietica si è sostituita la Russia.
«Non proprio. Perché noi non siamo in guerra con la Russia. Siamo neutrali ostili, non belligeranti ostili, ma non in guerra. Come, del resto, l’Ucraina non è un nostro alleato, ma un partner. La Nato può discutere su cosa rappresenti la Russia per i nostri interessi. L’invasione dell’Ucraina è un fatto importante. Ma lì finisce. La Nato si muove solo per consenso, come stabilito anche a Pratica di Mare (accordi Nato-Russia, 2002, ndr). Quel Trattato è stato firmato da tutti, anche se alcuni a Est lo dimenticano. Nel tempo la Nato ha sancito tre compiti fondamentali: deterrenza/dissuasione, prevenzione e gestione delle crisi, sicurezza cooperativa. E queste sono le tre cose che l’Alleanza ha fatto. Nulla più. Ora ci troviamo con dei compiti chiari. Con delle priorità definite. Ma con capacità ben lontane dal potersi dire credibili».

Perché?
«Se hai 10 Paesi con 10 tipi diversi di carri armati, non sei credibile. Gli ucraini lo hanno imparato sulla loro pelle; con una logistica così non si va lontano. Si spendono miliardi su linee produttive troppo brevi, a costi unitari alle stelle. Al netto di energia, materie prime e altre variabili indipendenti».

Qual è l’alternativa a queste spese frammentate?
«Bisogna standardizzare, ma non se ne parla ancora. Questo fa capire quanto poco serio sia il dibattito sul riarmo europeo. Lo so: è un discorso che sembra scomodo all’industria. In ogni caso, la razionalizzazione della filiera sarebbe virtuosa. Come si è già visto nei settori aerospazio, aeronautica civile, satelliti, acciaio. Ora è il momento di farlo con l’industria della Difesa europea. Tanto più che le industrie servono per difenderci».

Torniamo alla cronaca. Trump ha di fronte un’Europa ancora divisa. Vedi l’ultimo caso del premier spagnolo Sánchez, che ha detto di non voler aumentare le spese militari a casa sua.
«Lo scenario è chiaro. Gli Stati Uniti hanno due priorità: Maga e Cina. Quindi il perno del vertice sarà il 5%. Almeno stando agli annunci di Rutte, che è il segretario Nato, ma non il Consiglio atlantico che decide. Perché poi bisogna essere in 32 a non dire “no” alle decisioni proposte. Per ora si sta negoziando su cosa includere. Noi italiani forse arriveremo al 2,5%, il 2% lo abbiamo raggiunto. Ma, una volta prese le decisioni, bisogna attuarle».

Però non tutti contribuiscono allo stesso modo.
«Esatto. Ci sono Paesi molto bellicosi a parole, che poi contribuiscono pochissimo. Non è colpa loro. Hanno forze armate ridotte. Non hanno abbastanza soldati nemmeno per usare le armi che comprano».

C’è chi sta tornando a parlare di eserciti di leva.
«I polacchi stanno valutando una riserva volontaria. Sono quelli che spendono di più, eppure non osano parlare di leva, che invece sarebbe la risposta più logica. Se è vero il pericolo per cui Putin sarebbe pronto ad attaccarci entro cinque anni, serve leva a due anni. Seria!».

E se non fosse una guerra aperta, ma ibrida?
«È diverso. Se si tratta di guerra ibrida o provocazioni, serve capacità di risposta rapida e strumenti politici. Il problema è che chi ipotizza le manovre di Putin non fornisce mai uno scenario concreto. Si sventola la minaccia, ma senza entrare nel merito».

Questo vuol dire sopravvalutare il nemico?
«No. Significa prendere le cose seriamente. E la Russia va presa sul serio. Oltre i timori e i proclami, però, noi non sappiamo cosa farà Mosca. Biden almeno mostrava foto satellitari. Aveva tra le mani elementi concreti. Noi no. Le perdite in Ucraina, se davvero pesanti, possono aver creato dei problemi a Mosca che non si risolvono in pochi anni».

Come altrettanto la guerra contro l’Iran? Quanto incide sulla capacità russa?
«Tenderei a non mettere tutto insieme. Russia, Iran, Cina, Corea del Nord possono condividere percorsi. Uno può chiudere gli occhi su quello che fa l’altro. Ma attenzione a farne un “club sandwich”».