La mostra
Vi racconto Andy Warhol: mito pop, signore micragnoso

Andy Warhol è tornato! Alla fine, fra tutte le possibili capitali del pianeta, pensa un po’, ha optato per Roma, città di antiquari, quelli che più amava frequentare, tra Fontanella Borghese e i Coronari, in cerca di arredi da gran commendatore glamour, direttamente spediti nella vertiginosa Manhattan. Via dei Barbieri, galleria Contemporary Cluster, palazzo Cavallerini Lazzaroni, giungo poco prima che abbiano finito di allestire la mostra che dovrebbe, fra molto altro, narrare proprio il genio di Warhol, di più, la Presenza stessa nello stroboscopico discopub-privè dell’arte. Un buttadentro, moschettone e catenella da mangiafuoco hipster, avverte che è ancora presto: «… abbiamo uno start alle 19.00!». Confesso a me stesso di non comprendere la precisazione, intravedo tuttavia con la coda dell’occhio, nell’ideale luce di Wood che tutto all’interno avvolge, gli scatti che Gerald Bruneau, maestro fotografo viaggiatore, uomo di mondo e co-protagonista dell’esposizione-omaggio, ha fatto ai Bronzi di Riace, non prima di averli rivestiti di tulle rosa, così per amore di doveroso scandalo. Nell’attesa di ritrovare il redivivo inventore della Pop art, riconquisto a piedi via del Monte della Farina, l’Area Sacra di largo Argentina e il suo cinerama turistico di gatti e gattare gelose, rosticcerie d’alto bordo “Roscioli”, turisti che galoppano, la sporta in mano, verso Campo de’ Fiori, capolinea di tram zeppi di occhi in attesa e madonnari che bivaccano sotto le bacheche del Teatro Argentina; così continuando a rimuginare su cosa sia mai, accanto allo “start”, restando in tema di mostre, il “finissage”, suono da coiffeur pour dame o forse lacca per tenere su la permanente nell’ultimo giorno utile di visita?
Dai, non possiamo mancare alla santificazione di Warhol nell’Urbe, pontefice maggiore del sogno Made in Usa, colui che lo scrittore palermitano del Gruppo 63, Gaetano Testa, chiamava con vezzo autarchico, avanguardistico, Endi Varòl, infatti anch’io da quel 1975, quando il nostro era in pieno fulgore nella sua Factory davanti alla serie dei trans, così lo certifico all’anagrafe dei grandi. Mi aspetto di trovare, una volta dentro, i suoi parrucchini alogeni, poterli ammirare come fossero la feluca di George Washington o piuttosto l’uranio di Los Alamos dentro una teca di cristallo, i parrucchini che ho visto archiviati presso la sua Fondazione al 65 di Bleecker Street, New York City, N.Y. Il pubblico, come me trepidante sull’uscio, brilla tra hipster e post-grunge nel fitto nero degli abiti con cappuccio, calca da remake capitolino dello Studio 54, gli stessi anni, appunto, in cui Warhol accoglieva Bianca Jagger in sella a un cavallo bianco tra Donna Summer, Grace Jones, Liza Minnelli, Lou Reed e Truman Capote. Parka, zainetti, berretti “a sacco” un po’ da bravi di Don Rodrigo e un po’ alla Christian De Sica in “Ricky & Barabba”…
Ci siamo: le acque dell’evento si sono finalmente rotte. È una serra di modernariato, cineserie, mobilia rivestita con “toile de Jouy”, metti, di zio Luca o cugina Francesca Romana, nonno Carlo, gran notaio morto già residente ai Parioli, le menzionate gigantografie di Bruneau, abat-jour anni 50, e gli ellepì dei Velvet Undergound, la banana da cover in bella vista, copie di “Interview”, il magazine di Andy, ecco le trans litografate per la serie “Ladies and Gentlemen” del 1975, la posa segnaletica di Mario Schifano al suo primo fermo presso la questura romana di via San Vitale: “consumo di stupefacenti”, ancora uno scatto che mostra l’autore dei “paesaggi anemici” mentre, felice, segue Warhol, ragazze che ammirano – “… ma è proprio Schifano!” – e quasi si inchinano davanti a Mario, arcangelo sterminatore della pittura italiana del secondo Novecento; Schifano ne sarebbe contento e frastornato, pur detestando la qualifica di artista pop. E ancora fanciulle travestite da attrazioni e figuranti sempre dello Studio 54, il dj pronto perfino a far ballare tutti all’acme della serata, stagnola luminosa ovunque sul pavimento.
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