Aveva 26 anni
Viene in Italia per una vita migliore, ma muore legato mani e piedi: il dramma di Abdel
Abdel Latif aveva 26 anni ed è morto alle 4 del mattino del 29 novembre nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Camillo di Roma. È morto su un lettino di contenzione, ufficialmente per “arresto cardiocircolatorio”. Latif era arrivato a ottobre, su un barcone, a Augusta. Appena arrivato è stato trasferito come di consueto su una nave per la quarantena, la Gnv, per essere poi immediatamente trasferito: «Come ormai quasi di prassi in Italia – scrivono gli attivisti della campagna LasciateCIEntrare – per chi proviene dalla Tunisia, non era riuscito a manifestare la volontà di richiedere protezione internazionale ed era stato inviato in direttissima al Cpr di Ponte Galeria». Gli accordi tra Italia e Tunisia sono oliati e i rimpatri praticamente automatici, senza troppe preoccupazione per i diritti umani.
Il consigliere regionale di +Europa nel Lazio, Alessandro Capriccioli, racconta la sequenza degli eventi: «Dalla documentazione che abbiamo visionato risulta che il giovane tunisino era affetto da problemi psichiatrici e che il 23 novembre, a seguito di una richiesta da parte della Asl finalizzata all’approfondimento della valutazione psichiatrica, è stato portato al pronto soccorso dell’ospedale Grassi. Da qui, dopo due giorni, il giovane è stato trasferito al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (Spdc) dell’ospedale San Camillo, in cui risulta essere stato sottoposto a contenzione tutti i giorni fino al 27, anche se non è specificato con quali tempistiche». Il fatto che non siano specificati gli orari della fine della contenzione, solitamente usata solo per il tempo necessario ai farmaci di fare effetto, lasciano presagire il terribile dubbio che Latif sia stato legato con mani e polsi al letto per tre giorni. «Va chiarito se al momento della morte fosse legato perché nelle carte sanitarie non è indicato. Gli esami del sangue erano regolari, non sembrava ci fossero problemi di salute», dice il garante per i detenuti Mauro Palma.
I familiari in Tunisia raccontano che il ragazzo fosse in ottima salute e non avrebbe mai mostrato disagi psichiatrici. La madre di Abdel è riuscita a sentire il figlio appena sbarcato: «La mamma aspettava una telefonata del tutto diversa, attendeva che il figlio partito per cercare un’alternativa di vita la chiamasse per dirgli che andava tutto bene: è stato straziante sentire le sue urla dall’altra parte del telefonò», ha raccontato il deputato tunisino Majdi Karbai, eletto in Italia nella circoscrizione esteri con il partito di sinistra Attayar. Karbai ha diverse domande: «Perché alla famiglia è stata comunicata immediatamente la morte per cause naturali? Perché sul corpo del ragazzo non è stata disposta immediatamente l’autopsia?». Il direttore del Cpr Enzo Lattuga ha cercato di ricostruire la vicenda: «Conoscevo quel giovane ed era in salute, stava bene. È uscito con le sue gambe. Non ho idea di cosa sia successo in quella struttura. Ho solo ricevuto una telefonata in cui sono stato informato della sua morte».
Molte domande e, come spesso accade quando si tratta di Cpr, pochissime risposte. L’unica certezza è che Abdel Latif è il settimo morto in due anni all’interno dei Cpr, dove spesso i detenuti vengono imbottiti di psicofarmaci senza adeguata prescrizione medica. Sappiamo anche della vergognosa convenzione tra l’Italia e la Tunisia (che prende dal nostro governo 8 milioni di euro) per garantire la sorveglianza delle coste del Mediterraneo e per rimpatriare velocemente i migranti che vengono prelevati dalle navi quarantena, rinchiusi nei Cpr per qualche giorno e poi rimpatriati senza nemmeno avere il tempo di presentare domanda per essere riconosciuti come rifugiati. Da gennaio a oggi sono più di 1.600 rimpatri con lo Stato “amico”, talvolta con vere e proprie retate tra gli sbarcati. Evidentemente la volontà politica è questa. Poi, ogni tanto, un morto è semplicemente un effetto collaterale.
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