Aumentano ogni giorno i casi che vedono coinvolte ragazze, donne e madri in episodi di ogni genere di violenza. In questo caso, i centri antiviolenza rappresentano il fulcro della rete nazionale per la presa in carica delle vittime. Anche se i numeri emersi dalla ricerca dell’Istat, Istituto Nazionale di Statistica, sono ancora poco soddisfacenti.

La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e contro la violenza domestica di Istanbul del 2011, prevede che gli Stati predispongano di servizi specializzati in supporto per ogni vittima di un qualsiasi atto di sopruso. Successivamente, nel 2013 arriva la legge di ratifica della Convenzione di Istanbul che individua come obiettivo quello di avere un centro antiviolenza ogni diecimila abitanti. Per questo, l’Italia si è attivata nel 2014 con un’intesa tra stato, regioni e province autonome stabilendo che i centri d’aiuto sono strutture in cui sono accolte, gratuitamente, le donne di tutte le età e i loro figli minorenni vittime di violenza, indipendentemente dal luogo di residenza. I dati italiani non sono così sconfortanti, ma l’offerta dei centri è ancora ad un livello mediocre.

Al 31 dicembre 2017 sono attivi nel nostro Paese 281 centri pari a 0,05 per dieci mila abitanti. Ci sono, inoltre, 106 centri e servizi antiviolenza che non aderiscono all’Intesa stato-regioni. Considerando il dato calcolato sulle vittime che hanno subito violenza fisica o sessuale negli ultimi cinque anni, l’indicatore di copertura dei centri su 10mila vittime è pari a 1,0, con un minimo nel Lazio e un massimo in Valle d’Aosta. La maggior parte dei centri ha un territorio di competenza intercomunale o provinciale: fanno eccezione le regioni piccole (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata) e la Calabria, dove l’attività si estende all’intera regione. Oltre a farsi carico delle vittime, i centri d’ascolto svolgono attività di informazione e prevenzione all’esterno. Nel 2017, l’81% ha organizzato una formazione di questo tipo, soprattutto verso gli operatori sociali e sanitari, ma anche verso le forze dell’ordine e gli avvocati, e il 91,7% ha svolto attività d’informazione presso le scuole.

Nel totale, sono 4.403 le donne che operano nei centri, tra cui 1.933 sono retribuite e 2.470 impegnate esclusivamente in forma volontaria. Nel Sud la quota di volontarie è molto inferiore alla media nazionale (31,0%), mentre aumenta nel Nord-ovest e al Centro. In linea generale, ogni centro assicura la presenza di diverse figure professionali specifiche: il 76,7% ha più di tre tipologie di professioni nel suo team e il 5,5% ne ha addirittura sette. Questa molteplicità di competenze caratterizza sia i centri più piccoli sia quelli più grandi. A parte la presenza di coordinatrici o vicecoordinatrici, nei centri lavorano soprattutto le avvocatesse, le psicologhe e le operatrici di accoglienza. La metà dei centri si avvale inoltre della figura professionale dell’assistente sociale e dell’educatrice/pedagogista mentre le mediatrici culturali sono presenti nel 28,8% dei casi. Inoltre, hanno anche personale amministrativo e altre figure, come l’orientatrice al lavoro o il personale di formazione sanitaria. Ma è ancora lungo il cammino per offrire una copertura specializzata efficace.