È certo necessaria una “replica” alla “replica” del prof. Fornero. In sostanza la questione è riassunta così: per il filosofo Fornero la vita è “indisponibile”; lo dicono i documenti della Chiesa e le analisi svolte nel suo volume di 800 pagine. Nella replica sottolineavo che la “indisponibilità” non è proprio così stringente, visto che la vita “è mia”, magari proprio rileggendo gli stessi documenti citati, aggiungendone altri. Certo la dissonanza cognitiva c’è, ed è proprio tanta. Però la possiamo spiegare e motivare. Tra l’altro il prof. Fornero, testi alla mano, fa il fondamentalista dell’indisponibilità e si fregia dell’imprimatur del cardinale Sgreccia che gli riconobbe il merito di riprodurre fedelmente le posizioni della Chiesa (quando lo disse? In che occasione? Riferito a cosa? Non si sa…). Dunque tutto è a posto: Sgreccia dixit, il Magistero sia con entrambi.

Un primo aspetto sottoporrei all’attenzione dei lettori: sarà il caso di diffidare quando i laici (non credenti) – filosofi o meno – si attribuiscono la patente di autentici interpreti del Magistero? Qui sembra che il Magistero (ente astratto, infatti il riferimento è a due papi su 263 e a qualche documento della Dottrina della Fede) stia dentro una “gabbia” interpretativa definita una volta per tutte, dove non c’è spazio per un progresso intellettuale. Se fosse così la teologia si sarebbe fermata, che so, ad Agostino e al suo “pessimismo” sulla natura umana. Oppure alla Scolastica, oppure al tomismo (con la bioetica al tempo di Tommaso d’Aquino… la scienza sarà andata un po’ avanti da allora?). Oppure si poteva fermare alla casuistica, alla morale di Alfonso de Liguori, alla teologia non tomista di Rosmini. E già abbiamo diverse impostazioni etiche e teologiche. Le riduciamo tutte a una soltanto (quale?) oppure consideriamo il Magistero non statico ma dinamico, con accentuazioni che cercano di cogliere i segni dei tempi e tengono conto dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecniche?

Non sto sviando “buttandola in politica”. Sto cercando di dire al lettore (il prof. Fornero, lo so, segue solo la “indisponibilità”) che in questi anni siamo di fronte a cambiamenti di accento e di posizioni, su temi complessi come il fine-vita. Ma soprattutto sto cercando di dire al lettore che oltre alle posizioni teoriche, c’è la realtà concreta delle persone (malate, in questo caso). È il motivo per cui se da un lato la Chiesa dice che nessuno può darsi la morte accorciando la propria vita, allo stesso tempo riconosce il diritto a interrompere trattamenti non proporzionati (ostinazione irragionevole, per meglio dire, quando non si può più guarire). Non sembra una contraddizione? Guardando al caso concreto della persona malata e sofferente, in fase terminale, la contraddizione non c’è. Perché siamo tutti destinati a morire. Per il mondo cattolico la distinzione da fare è molto chiara: trattamenti medici da ostinazione irragionevole si possono e si devono lecitamente sospendere. È il malato che decide, non la Chiesa, non il vescovo del luogo, non il parroco. Dipende dal malato (la vita è mia, è nella mia disponibilità), anzi dall’alleanza terapeutica tra il malato e il medico.

Quella che non si può sospendere è “la cura”, il prendersi cura del malato e della sua sofferenza fisica, psichica, spirituale, secondo quell’approccio olistico che viene dalla medicina palliativa. E che Papa Francesco accentua: nel 2015 ha dato preciso mandato alla Pontificia Accademia per la Vita di approfondire il tema delle cure palliative. E così sta facendo. E dunque c’è in atto una modifica del “paradigma” dell’indisponibilità, perché le cure palliative cambiano il rapporto medico-paziente, intervengono sulla relazione terapeutica e sulle relazioni tra i soggetti coinvolti. Prendere sul serio – mettere al centro – la dignità della persona, soprattutto quando è malata o alla fine della vita, implica un cambiamento nel modello sanitario. Questo è uno degli aspetti più difficili da far capire (agli stessi cattolici, figuriamoci ai laici). Quando parliamo di medicina e di sanità, stiamo attenti a non indossare troppo gli “occhiali” occidentali. Da occidentali abbiamo in mente un modello di contratto, di alleanza terapeutica, tra medico e paziente. L’idea dell’autonomia assoluta del paziente (la vita è mia e decido quando interromperla) riduce il medico a mero esecutore della volontà del paziente.

È un eccesso individualista (neoliberista?) tanto quanto il paternalismo che vede il medico unico depositario delle terapie da somministrare anche quando non servono a guarire (ostinazione irragionevole). Come se ne esce? Ritorniamo al punto di partenza: la vita è mia o non è mia? Mons. Paglia da Augias quel 10 ottobre 2021 ha cercato di dirlo molto bene. Difatti Augias lo ha interrotto perché il tema è scomodo. La vita è mia? Certo che è mia, ha detto mons. Paglia. Ma non è solo mia. E di chi è? – incalzava Augias. La risposta che non è stato possibile dare: l’assistenza sanitaria di una persona malata (terminale) si iscrive in un complesso di altre relazioni, sociali e civili ed anche mondiali, perché la cura della salute esige una governance globale (S. Harman, Global Health Governance, 2012; oppure H. ten Have, Bioetica Globale, 2020). Trattamenti e cura (presa in carico, secondo un approccio olistico) non sono riducibili a una questione individuale; oggi la frontiera avanzata delle cure si dirige verso la costruzione di una rete di servizi che ne costituiscono la dimensione pubblica, sociale e mondiale. La salute è uno dei “beni comuni” che vanno tutelati. E il progresso medico – che allunga la durata della vita e rende possibile sopravvivere in situazioni cliniche dove pochi anni fa si moriva e basta – apre nuove sfide etiche sulla “qualità” della vita e sulla “dignità” umana e della vita, come dicevo il 25 novembre (tema su cui il prof. Fornero sorvola, tanto è scomodo e mette in discussione tutta l’impalcatura della pura e semplice nozione di “indisponibilità”).

Alle sfide mediche, sanitarie (assistenza), sociali, si risponde con il dialogo tra etica, medicina, tecnologie. La salute è concreta, è la mia salute, non un prodotto commerciale, utilizzabile, solo individuale e basato sulle possibilità offerte a chi possiede le risorse per accedere ai servizi sanitari, escludendo il resto del pianeta. Il tema vero non è la “indisponibilità”. Il tema è lo scenario, che la Chiesa cerca di affrontare riflettendo su una “cosa” che si chiama “Bioetica globale” e che Papa Francesco pone al centro del suo Magistero. Detto in altri termini: la “sacralità della vita” non va intesa come un combattere ad ogni costo la morte mettendo la medicina in una condizione “impossibile” (D. Callahan, False Hopes, 1998), perché comunque non può impedire la morte. Personalmente, mi piacerebbe che nella prossima edizione del suo volume, il prof. Fornero dedicasse almeno un paragrafo, per attestare che “l’indisponibilità” è un concetto in evoluzione, e la Chiesa sta lavorando per un approccio che rispetta le persone malate e la loro dimensione globale di vita.

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Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).