Come rappresentare l’orrore della guerra, nella sua nuda evidenza ma senza spettacolarizzarlo? Una guerra non è soltanto piogge di missili che somigliano a un videogame (sembra che il TG2 abbia trasmesso per errore immagini del videogioco “War Thunder” spacciandole per bombardamento russo), ma corpi dilaniati, bruciati, sfigurati. Nella Grande Guerra l’Italia ebbe 500.000 mutilati. Perfino i medici, che non avevano mai visto devastazioni fisiche di quella portata, ebbero difficoltà ad affrontare un’emergenza del genere. Forse più delle immagini – sempre “spettacolari” e invasive – è la scrittura che si incarica di rendere conto dell’orrore delle mutilazioni.
Proviamo allora a spostarci su un altro “fronte”, una guerra interna, la repressione violenta delle manifestazioni di protesta da parte dello stato. Sophie Divry ha scritto un libro bello, terribile e commovente – Cinque mani mozzate (Sossella, trad. Giorgia Tolfo, nuova collana chiamata non-script)) – su cinque partecipanti al movimento dei “gilè gialli” che nel corso di scontri con la polizia hanno visto una loro mano mozzata da una granata (si tratta di granate offensive, caricate con il tritolo, che in Europa solo la Francia usa contro i manifestanti). Il libro si costruisce quasi da sé, attraverso la testimonianza diretta delle persone coinvolte, lungamente intervistate dall’autrice. La quale dichiara orgogliosamente che «in questo libro non c’è una sola frase scritta da me», come avrebbe potuto dire Nanni Balestrini di ogni sua opera, in prosa e in poesia. Tecniche e procedimenti usati sono pressoché identici, di derivazione avanguardistica: collage, montaggio, cut-up, fold-up, etc. (diciamo: dai dadaisti a Burroughs, per il quale la “vita è un cut-up”, una continua percezione frammentaria di pezzi di realtà esterna).
Un testo esemplare di Balestrini fu Vogliamo tutto (in seguito Furiosi, Gli invisibili…), che riproponeva la tecnica combinatoria tipica del suo autore, attraverso prelievi da interviste, volantini, giornali, verbali di assemblea, murales. La soggettività dello scrittore, lungi dallo sparire, si riafferma proprio nel modo in cui si decide di tagliare, rimaneggiare, manipolare il materiale raccolto, al fine di suscitare emozioni e di trasmettere un sentimento – potenzialmente condivisibile – della realtà. Ma a differenza di Balestrini, che in quel suo pur originale esperimento del 1971, a ridosso della rivolta operaia, volle immettere nei materiali verbali l’ideologia e gli slogan di un preciso raggruppamento politico, la Ditry non esibisce alcuna ideologia né si pone obiettivi militanti. Solo intende rappresentare un’esperienza come quella dei gilet jaunes, «di invisibili che diventano visibili, di inascoltati che si fanno sentire…una epifania improvvisa dei salariati minimi e delle preoccupazioni quotidiane», nata per il rincaro dei prezzi del petrolio.
Colpisce, nelle testimonianze, il desiderio di partecipare alle manifestazioni parigine come un pretesto da parte di intere famiglie, nonni compresi, per visitare la capitale, insomma una festa rivoluzionaria, «un rituale collettivo di partecipazione e distruzione» (Raffaele Alberto Ventura nella intro). A queste manifestazioni prive di uno specifico colore politico, e in larga parte informali, risponde una violenza estrema della repressione da parte di un ordine che «nasconde tuttavia un disordine più profondo» (Ventura). 12.000 arresti, 40.000 condanne, 2.500 feriti, di cui 24 con occhi spappolati e appunto 5 con le mani mozzate. «Ci ero andato perché con uno stipendio solo non ce la fai…», e ancora: «All’inizio c’era un’atmosfera molto bella. C’era parecchia gente. Canti, slogan. Andavamo avanti tranquilli». Poi gli scontri, l’ordigno che cade vicino, tutto fumante, l’errore di prenderlo in mano, e lo scoppio: «è un botto enorme. Di riflesso giro la testa e chiudo gli occhi… poi ho sentito una specie di formicolio alle mani», infine tutti gli altri intorno che scappano «con uno sguardo d’orrore». La seconda testimonianza, di un idraulico molto sportivo, figlio di un pescatore e di una casalinga. Quando scoppia la granata «mi sono guardato la mano e non c’era niente…solo un ammasso di carne gocciolante sangue”», con i poliziotti antisommossa in formazione a testuggine, come in Astérix e Obélix, che stentano ad aiutarlo, e a cui lui grida: «Guardate cosa mi avete fatto! Siete fuori di testa!»
Dopo l’incidente l’amputazione, i molti interventi chirurgici, le fasciature, le protesi (con le quali «non si può fare più di tanto»), la lunghissima riabilitazione, sempre «con la speranza di ritrovarsi la mano». Uno di loro, a tavola con i figli, non riesce a tagliare la carne, eppure si ostina, si chiude in camera e pensa «Sono io il padre. Non sta a loro tagliarmi la carne»). Una vita da disabili, con ulteriori preoccupazioni economiche e tutti che ti guardano quando entri nei negozi. Non hanno del tutto perso l’humour: «Ridere mi aiuta molto. Faccio battute molto ciniche…metto il moncherino in bocca, ‘guardatemi, ho la mano in fondo alla gola’». Anche se il tempo più bello resta quello passato con i propri figli piccoli. Tornano alle manifestazioni, però non appena c’è l’ombra di un lacrimogeno scappano e covano propositi di vendetta. Alcuni di loro hanno fatto della loro ferita una causa unendosi a gruppi di mutilati, altri no, ma tutti esprimono un desiderio di giustizia: la Francia non è il paese dei diritti umani ma «della dichiarazione dei diritti umani».
L’autrice non aggiunge commenti, non giudica, assume il proprio montaggio come “una forma di servizio”, per trasformare un «quintetto della sofferenza» in un «coro con degli assoli», notando che le vittime delle granate non sono state avvicinate da alcun giornalista perché la loro sofferenza «non lascia indenni». E insiste sul fatto che i “gilè gialli” appartengono a quanti «non sono nulla» (Macron): il punto è che «solo nei romanzi le granate cadono sugli eroi», mentre in Francia cadono «su chiunque, sul Signor Qualunque»-. Solo ascoltando queste vittime, i mutilati degli scontri di piazza, la gente anonima oltraggiata nel fisico, sarà possibile impedire l’involuzione autoritaria delle nostre democrazie. Ricomporre, ricucire, rammendare…Viene in mente il commento di Giorgio Manganelli a un quadro minore, visto agli Uffizi, nel quale San Benedetto fanciullo risana un vassoio frantumato, caduto dalle mani della nutrice. Miracolo forse più bello, perché il santo ripara ciò che si era rotto per sempre, irreversibilmente.
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