Siamo debitori al grande pensatore
Walter Benjamin è ancora qui, il suo pensiero una lama di luce nel buio
Ha fatto bene Il Riformista a non lasciare passare l’occasione per tornare a riflettere su Walter Benjamin. Lo ha fatto facendo parlare uno dei massimi studiosi e interpreti del grande filosofo del Novecento, Paolo Vinci, che ci ha suggerito utilmente di leggere a partire dal dramma barocco-tedesco l’idea di redenzione in Benjamin come abbandono di un disegno provvidenzialistico per calarla invece nell’immanenza, nell’attualità di ogni tempo, sempre aperta all’insorgere improvviso dell’emancipazione. Del resto, il pensiero di Walter Benjamin è un prisma di cristallo scaraventato nella storia dell’uomo, un prisma fatto di un’unica pura materia, ma composto da molte facce. Ognuna di loro, a me pare essere sopravvissuta al fallimento, da un lato, e alla sconfitta, dall’altro, della grande scalata al cielo tentata dai rivoluzionari nel Novecento. La fine della rivoluzione novecentesca lascia così ancora, nelle sue ceneri, prismi di cristallo come quello di Benjamin.
Essi sono rimasti lì a ricordarci che si deve sapere che, sempre e in ogni caso, non tutto è perduto. È la lama di luce che lui vedeva da bambino strisciare nel buio della notte sotto la porta della camera, quella lama di luce nell’oscurità che accompagnerà l’intera sua ricerca. La grande scoperta che ci consegna è che nell’attualità, proprio nell’attualità di ogni tempo, ci può essere l’irruzione del Messia, l’irruzione della rivoluzione. È l’imprevisto che squarcia il tempo dei vincitori e offre una chance ai vinti, affinché possano smettere di essere tali. La rivelazione di Benjamin è straordinaria e continua a costituire uno scandalo teorico. La sua critica dello storicismo dischiude una possibilità all’irruzione nella storia della liberazione e ciò che, per usare le sue parole nelle tesi Sul concetto di storia, «fonda così un concetto di presente come quell’Adesso nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico». Lo storicismo, ci dice Benjamin, è la scienza del vincitore e l’immedesimazione col vincitore torna sempre a vantaggio dei dominatori di turno.
Anche il patrimonio culturale che l’umanità eredita, se indagato criticamente, rivelerebbe una provenienza carica di orrore. Un documento della cultura è sempre insieme un documento della barbarie. «Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi che calpesta coloro che oggi giacciono a terra». La critica radicale dello storicismo genera in Benjamin una critica ugualmente radicale dell’idea di progresso. Nasce da qui il compito che viene assegnato al materialista storico, quello di spazzolare la storia contropelo. Se ieri la tesi di Benjamin sembrava oscurata da quella avanzata dal Movimento operaio, che appariva interna al cammino necessitato della storia, e che dunque perciò ne apprezzava la continuità, oggi la critica benjaminiana rivela la transitorietà di quella storia e la sua eccezionalità, mentre il duro tempo presente ci fa tornare proprio sulle tesi di Benjamin per coglierne tutta la veridicità e per dischiuderci una prospettiva di liberazione altrimenti negata. Ci viene così ricordato che nei giorni della rivoluzione di luglio a Parigi si sparò contro gli orologi dei campanili, si sparò cioè contro il “loro tempo”, il tempo dei dominatori. Contro il tempo lineare e controllato dei dominatori si erige allora la rottura nel tempo e del tempo, si erige l’irruzione rivoluzionaria, si intravede la lama di luce nel buio. «Non vi è un solo attimo che non rechi in sé la propria chance rivoluzionaria».
Proprio qui la lezione benjaminiana si fa acuta e impegnativa e ci costringe a farvi i conti ancora ora, anzi proprio ora. Ma come si può cogliere quell’Adesso rivoluzionario? La leva per poterci provare è una combinazione straordinaria di un presente illuminato e di un passato rivissuto. È il presente dell’attimo che porta con sé la chance, una chance che però è specifica, cioè del tutto e per tutto nuova, e perciò necessaria, di un compito radicalmente nuovo. Esso richiede contemporaneamente il rimpossessarsi del passato, di un passato che nella storia dei vinti è però anticipatore di futuro liberato. È il balzo di tigre. Non c’è chi non veda qui come l’azione politica si configuri anche come azione messianica. La rivoluzione come lotta di classe che abbatte l’ordine delle cose esistenti e la spinta alla redenzione umana si coniugano, pretendendo, invece che il completamento della storia, la sua interruzione. Viene così alla luce ancora un promettente e potente scandalo intellettuale. Il credo della Storia allora per il rivoluzionario non va fatto correre più velocemente, bensì va fermato per poter scendere da esso.
Aiutano a capire questo straordinario pensatore, che ha valicato i confini del secolo grande e terribile, i rapporti che ha intrattenuto in particolare con Bertolt Brecht, Theodor W. Adorno, Gershom Scholem. Si potrebbe dire che, attraverso il dialogo con loro, Benjamin abbia affrontato insieme i temi del comunismo, della critica della modernità e del messianismo. Si sono diffusi con la sua ricerca, a lungo purtroppo misconosciuta, un nuovo orizzonte della liberazione. Quel che ci è stato proposto, in una quantità eccezionale di opere, non è l’organicità di un pensiero compiuto e pacificato, ma al contrario l’invito anche drammatico a cercare il guizzo della storia, lo scarto che fuoricampo vede riaccendersi la chance per la liberazione dell’uomo. Credo che si possa dire che gli siamo debitori di un cambio di prospettiva, quello nel quale i vinti possono riacchiappare il filo del futuro. Oggi non è solo il fascino di un pensiero non domato ad attrarci, ma la sua quasi incredibile attualità. Attualità raggiunta con un salto che ha scavalcato il suo e il nostro tempo. Oggi, molto di quello che accade ci butta addosso proprio quei pensieri, quella ricerca.
La pandemia ha dilatato la crisi che era già iscritta in questa nuova fase storica dell’ultimo capitalismo e che, se non la rende prevedibile, fa tuttavia tornare come possibile l’esito della catastrofe. Parallelamente una nuova frontiera che la scienza e la tecnica stanno raggiungendo sembra delineare una propensione di questo ultimo capitalismo a perseguire addirittura una nuova antropologia, una sorta di nuovo dominio della macchina e di sussunzione dell’uomo in essa. Questa minaccia viene nascosta da un’apologia dell’innovazione tecnico-scientifica e da una fantasmagoria delle nuove merci che svolge un potente ruolo accecante, mentre tanta parte della cultura e dei saperi canta un nuovo Ballo excelsior.
Chi più di Walter Benjamin può farci ora da guida nella ricerca di una capacità di resistenza e di promozione di un diverso futuro? Un pensiero complesso, irto di sentire impervi, più propenso al frammento che a un qualche organicismo, ci è pervenuto con grande intensità e luminosità, anche per la potenza delle immagini che hanno accompagnato la sua ricerca. Due sue allegorie a me sembrano continuare a fungere da torce nel cammino da intraprendere. Esse parlano l’una della storia, l’altra della politica, della rivoluzione. Sono entrambe contenute nella sua formidabile opera Sul concetto di storia. Della storia ci parla l’Angelus novus, quello raffigurato nel quadro di Klee. L’Angelo ha il viso rivolto al passato che però è, in realtà, il nostro futuro di catastrofe. L’angelo vorrebbe fermarsi, ma una bufera lo spinge verso il futuro, a cui volge le spalle, mentre cresce il cumulo di macerie davanti a lui. L’Angelus novus di Benjamin ci dice che ciò che chiamiamo progresso è questa bufera, che è già anche la nostra bufera, la bufera del nostro tempo.
Lo stesso libro ora citato comincia con il racconto dell’automa, costruito in modo tale da saper reagire sempre con una contromossa nel gioco degli scacchi che gli assicurava la vittoria sempre. Si raccontò lì delle innumerevoli vittorie dell’automa contro l’accorrere alla sfida dei più grandi scacchisti, ma l’autonoma, la tecnoscienza vinceva sull’uomo sempre. Senonché poi si scoprì, come d’incanto, che dentro quell’automa stava seduto un nano gobbo che guidava con dei fili gli arti dell’automa. È il nano gobbo che vince la partita, meglio, è l’alleanza del nano gobbo e la macchina svuotata dalla sua tecnica. Per Benjamin, quella è l’alleanza vittoriosa tra il materialismo storico e la teologia, un’idea della teologia come vive nell’accezione straordinaria dell’autore. Ma anche questa potente allegoria ci introduce all’acuta e drammatica attualità di Walter Benjamin. Essa ci parla del rapporto tra la macchina e l’uomo, tra la politica e l’ideologia, Benjamin sapeva che quella non può vivere senza questa.
Così come la rivoluzione non può darsi che in quella bufera. Anche noi che viviamo questo tempo grigio abbiamo bisogno del passato. Walter Benjamin ci dice però che non è quello che siamo soliti chiamare “la lezione della storia”, che è la storia dei vincitori, al contrario abbiamo bisogno di quello che Benjamin chiamava la “rammemorazione”. La rammemorazione non è solo il ricordo dei vinti giusti, di quelli che hanno provato a cambiare il mondo e il corso degli eventi, e che hanno perso nella contesa, la rammemorazione è la capacità di far tornare d’attualità, di far tornare presenti e vive le ragioni lontane di quei tentativi di liberazione dell’uomo. Walter Benjamin sta ancora qui con noi e non ci lascia scampo.
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