Quando il padre, per un motivo o per l’altro, risulta assente, è la madre che manda avanti la baracca, soprattutto nel rapporto coi figli, quasi che l’evoluzione umana cercasse e trovasse in questo modo, nella strenua resistenza femminile, un varco utile in mezzo al fogliame, spesso putrefatto, della foresta circostante, in grado di far procedere oltre gli esseri della specie cui apparteniamo. Ma cosa accade nel momento in cui anche lei entra in crisi? In quel caso si ha l’impressione di una cellula impazzita che sta andando alla deriva nel tentativo di portare in salvo, a qualsiasi costo, il principio vitale.

È questa una riflessione che può scaturire leggendo Wyoming di Barry Gifford (Jimenez, pp. 107, traduzione di Michela Carpi, diciotto euro) un romanzo criptoteatrale, che in effetti potrebbe essere messo in scena, pubblicato per la prima volta nel 2000, sul ciglio del burrone, pensando alla tragedia delle Twin Towers ancora di là da venire, costruito tutto su dialoghi ininterrotti, divisi in trentatré capitoli, fra una madre e il figlio di nove anni, in giro sulle strade degli Usa, da Chicago a Miami, da New Orleans a Kansas City. Stavolta l’on the road assomiglia a una seduta domestica perché le parole scambiate all’interno dell’abitacolo chiamano in causa un passato familiare carico di tensioni. Sembra anzi che il fuoco covi ancora sotto la cenere: vicende dolorose sulle quali il tempo non è riuscito a depositare il suo manto benefico. Ma c’è una differenza essenziale: mentre la donna reca le cicatrici sulla pelle, alla maniera di una sopravvissuta, il bambino che la fissa e la interroga è fresco come una rosa, pronto a sorprendersi per un nonnulla: attraverso le sue irresistibili curiosità la giostra riprende a girare. Lei non può fare a meno di voltarsi indietro a cincischiare sugli errori commessi e sulle occasioni mancate. Lui è proiettato verso il futuro. Insieme rimestano nel pentolone delle innumerevoli esperienze trascorse: una folla di personaggi, zii, nonni, amici più o meno raccomandabili, appare e scompare, riemergendo come un frantume dalla memoria di entrambi ed è questo uno dei fascini del testo, al tempo stesso breve e concentrato.

Siamo nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Anni Cinquanta. Il paesaggio spoglio delle pianure sterminate non viene descritto direttamente ma emerge come un fondale evocato dalle parole dei due protagonisti, Edward Hopper allo stato puro, coi motel e i distributori di benzina che si susseguono a distanza non troppo ravvicinata, la main street che taglia in due i villaggi spopolati, i parchi gioco alla periferia degli abitati, i fiumi lenti e gonfi d’acqua, le chiese solitarie ai margini dei campi vuoti, le lunghe distese di granoturco coi silos stagliati all’orizzonte, i treni che sfrecciano rapidi verso le montagne. Un’America vista e rivista cento volte sugli schermi cinematografici e televisivi che proprio per questo paradossalmente assume nella dimensione narrativa una connotazione astratta. Mentre la radio trasmette i notiziari del mondo nuovo, Roy, ecco il nome del piccolo, rivolge domande alla mamma con la tipica frenetica sbarazzina cocciutaggine dei ragazzini della sua età: anche i serpenti dormono? Perfino il cobra? Riescono a vedere dove stanno andando? Come si chiama l’albergo in cui alloggeremo? Cosa mi dici di Bert, l’amico di papà? Posso prendere un hamburger invece della roba cinese? Uno può vedere la sua anima al buio se si toglie tutti i vestiti e si guarda allo specchio? Tu che faresti se uno di quegli uomini ai lavori forzati riuscisse a liberarsi e saltasse nella nostra macchina? Un giorno potremo andare nel Wyoming? Mi hanno detto che quello è un posto giusto per avere un cane. È vero? Perché tu e papà non vivete insieme? Un desiderio è una cosa bella o brutta? Da dove viene il maltempo? Cosa succederebbe se non ci fosse il sole?

Questo protagonista è una simulazione di bambino perché nella realtà egli non saprebbe mantenere una lucidità logica così serrata, quella che ad esempio lo spinge a spiegare alla madre la ragione per cui a volte, dopo essere arrivato a destinazione, si sente un po’ deluso: «È meglio immaginare com’è una cosa, o un posto, piuttosto che trovarseli di fronte». Lo scrittore si serve di lui per far scorrere la trama in modo sotterraneo, senza esposizioni tematiche. Oppure gli attribuisce idee illuminanti che in fondo potrebbero essere le proprie: come quando Roy chiede se esiste una religione della geografia e lei dice: «Non esattamente, a meno che non consideri quei posti che la gente venera perché crede che lì sia successo un evento straordinario». E Roy commenta: «Secondo me dappertutto è successo qualcosa di importante per qualcuno, solo che certi ci hanno tirato su un polverone, a differenza di altri». Tale dichiarazione, a ben riflettere, potrebbe guidarci dentro lo spirito profondo dell’opera, tesa a gettar luce negli angoli più trascurati della nostra condotta quotidiana, in quegli interstizi meno battuti, dove magari invece scorre l’essenza piena della vita: «Sai, mamma, per me la parte migliore del viaggio è quando siamo in macchina. Mi piace quando siamo a metà strada, tra i posti da cui veniamo e quelli a cui siamo diretti».

Dove vogliano andare questi due vagabondi non lo sanno nemmeno loro. Tutti abbiamo un Wyoming nel nostro cuore. Ma guai se lo raggiungessimo davvero! Allora facciamo presto a indovinare, dietro la coltre delle battute dal ritmo hemingawaino, i lacerti della storia che c’è sotto: infanzie difficili, matrimoni falliti, traumi ancora freschi. La madre, roccia della natura, risponde sempre puntuale alle sollecitazioni del figlio, anche quando dentro di sé vorrebbe soprassedere, specie nel momento in cui deve comunicare a Roy la morte del padre. «Papà faceva le cose giuste, vero, mamma?» «Tuo papà faceva le cose a modo suo, ma quello che devi ricordare, piccolo, è che le cose giuste sapeva riconoscerle».