C’è una cosa che ho sempre sospettato, a proposito della felicità, fin dalle prime volte che l’ho riconosciuta – dentro una gita al lago, o un treno che partiva; dentro un regalo da scartare o una stella cadente, dentro un pomeriggio passato a giocare, o un piatto di spaghetti al pomodoro con una bella foglia di basilico sul cucuzzolo. E cioè che non c’è contraddizione fra felicità e malinconia, contrariamente a quello che siamo convinti a credere dal martellamento consumistico-performativo della felicità obbligatoria, della felicità telegenica e competitiva.

Se penso ai momenti più felici della mia vita – la sera del trasloco a Parigi, quando sono scesa lungo rue de Belleville per cercare un alimentari dove fare un po’ di spesa per la mia prima cena in città, e mi sono resa conto che dopo averlo tanto sognato, finalmente abitavo lì, e in lontananza, nella luce del tramonto marzolino, mi sono pure illusa di vedere la torre Eiffel, ma miope come sono, sapevo che era uno scherzo kitsch del desiderio; il pomeriggio in cui l’uomo che amo mi ha infilato all’anulare un anello con uno zaffiro blu che era di sua madre, la promessa che ci sposeremo; la mattina che dal canile abbiamo portato a casa il nostro cane biondo, con il cuore che gli batteva forte quanto a noi batteva il nostro, i finestrini abbassati nell’aria dell’inverno, perché pensavamo che lo rassicurasse sentire il vento sul muso, Ivan Graziani che cantava Agnese dolce Agnese, perché pensavamo che anche la musica potesse rassicurarlo, e il brivido di pensare questo è il nostro cane – ecco, se penso a tutti questi momenti che pure sono, nel regno dei miei ricordi, piccoli giardini a cui mi piace fare ritorno quando fuori le cose vanno male, so che in ogni giardino c’è un pozzo, e che c’era anche mentre l’abitavo, quell’istante felice. Il pozzo è profondo, è un abisso; e un po’ mi attira, un po’ mi fa paura.

È un pozzo di malinconia, e sta dentro ogni possibile attimo felice, a ricordare che ogni cosa è destinata a una sua fine, che il momento passerà, e sarò in grado di serbare un ricordo all’altezza? A ricordarmi che anche la felicità la devo meritare, secondo una scomoda etica personale che ho introiettato molto tempo fa. Non esiste una felicità completamente bidimensionale, tanto da non incresparsi – appena appena, una piega sottile, ma l’occhio la vede e non la sa ignorare – come si increspa, verso la sera, il pomeriggio della domenica, nel richiamo dei doveri incombenti. La domenica tutta, ma soprattutto la sera, credo, è il luogo naturale della nostalgia preventiva – e infatti la fotografia che sta sulla copertina del nuovo bel libro di Lucrezia Ercoli, Yesterday. Filosofia della nostalgia, appena pubblicato da Ponte alle Grazie, più la guardo e più mi sembra l’immagine di una domenica eterna, con la sua promessa di malinconie. È una fotografia di Luigi Ghirri: una giostra ferma su una spiaggia invernale, una vera domenica esistenziale.

Il pomeriggio di festa che digrada verso la sera è il momento che fin dall’infanzia lego all’idea della malinconia, al pensiero che si volge all’indietro – perché non mi sono goduta di più l’ozio del sabato, la spensieratezza felice del fine settimana? Da bambina pensavo che la domenica sera fosse un tormento perché avevo ancora tutti i compiti da fare; da adulta so che è solo paura del futuro. E non sono l’unica; oggi, poi, che futuro non è più quello di una volta – l’ho letto su un muro di non so che città. Anche il passato però ha cambiato fisionomia negli ultimi tempi. Più il futuro si fa spaventoso – e in queste settimane, in cui all’allarme della pandemia succede quello della guerra, ce ne accorgiamo con dolore – più il passato sembra attraente. Mentre i nostri smartphone scattano fotografie con clic che simulano quelli delle vecchie macchine fotografiche, pullulano sui social i gruppi in cui giovani (e non tanto giovani) adulti si confidano di sentire la mancanza lancinante degli oggetti e delle atmosfere della loro infanzia.

La nostalgia, nella cultura pop, vive un vero e proprio momento d’oro; e poco importa che si tratti di un’illusione ottica – abbiamo nostalgia non tanto della voce di Max Pezzali che canta gli anni d’oro del Grande Real (in un grande pezzo di meta-nostalgia), quanto del mondo sicuro che sentivamo di avere attorno, bambini o adolescenti, quando la radio passava gli 883. Ma quegli anni non tornano, e il passato è una terra straniera: lì valgono altre leggi, e difatti, quando torniamo davvero sui luoghi che abbiamo amato, la delusione è cocente. Ma la nostalgia è un’emozione “fotogenica”, una versione socialmente accettabile della malinconia, che in un mondo di entusiasti super-performanti non trova cittadinanza.

Ogni generazione, come mostra Ercoli nel suo libro, citando l’arguta trovata di Woody Allen in Midnight in Paris – mettere in scena l’età d’oro della Lost Generation, svelando la sua nostalgia della Belle époque – rimpiange il mondo come non l’ha conosciuto, e si rifugia in una fantasticheria del passato che è protezione e insieme alibi; ma è vero che oggi, della nostalgia e del suo potere rassicurante, abbiamo forse più bisogno che mai. Con la speranza che, una volta rinfrancati, malgrado sembri utopia, torni possibile immaginare un futuro capace di accogliere tutti su una giostra che ricomincia a girare. Anche se non posso non pensare, guardando le foto dei soldati di questi giorni, al fatto che la parola nostalgia, come ricorda anche Ercoli nel suo libro, è stata inventata dal medico alsaziano Johannes Hofer per dare un nome al dolore che colpiva i giovani che partivano per la guerra, quando sentivano per accidente una musica che li riportava alla terra dell’infanzia.