La proposta di abrogazione dell’art. 323 c.p. nasce, come è noto, da un dato statistico e da una esigenza politica. Il dato statistico ci dice che un numero elevatissimo di procedimenti a carico di pubblici amministratori si conclude -dopo aver determinato danni politici e personali comunque non riparabili- con l’assoluzione degli imputati.
Nel merito, si prende atto che, grazie a questa controversa norma, non a caso ripetutamente ma inutilmente modificata negli anni, l’autorità giudiziaria inquirente (le Procure della Repubblica) continuano ad esercitare un indebito potere di controllo e di condizionamento della Politica. Quest’ultimo è il dato dal quale non può comunque prescindere una discussione seria sulla prospettiva abrogativa. Perché se è vero che gli esiti delle indagini aperte in tutta Italia è massicciamente assolutorio (nei vari gradi di giudizio), le conseguenze politiche e personali irreparabili precedono di gran lunga quell’esito, e ne prescindono.

Tra condizionamento mediatico, ragioni di opportunità e legge Severino, il malcapitato sarà intanto fatto fuori. Insomma un impatto del tutto anomalo sulle dinamiche ordinarie della vita democratica, cui occorre una volta per tutte porre rimedio. È tuttavia giusto ascoltare con attenzione anche chi dubita che l’abrogazione sia il rimedio giusto. Ovviamente non parliamo di voci populiste di nessuna qualità e di nessun interesse per un dibattito serio, ma di voci qualificatissime della dottrina penalistica contemporanea, che ci onoriamo di ospitare su questo numero di PQM. Le quali riconoscono senza esitazioni il grave squilibrio tra poteri che si è incancrenito intorno a questa norma, ma ricordano al contempo che l’origine della punizione delle condotte di abuso del Pubblico Ufficiale nascono proprio dalla esigenza, schiettamente liberale, di tutelare il cittadino dagli abusi di potere.

E che puntano il dito contro la vera origine dello squilibrio tra i poteri dello Stato, è cioè da un lato l’esercizio incontrollato, incensurabile e mai sanzionabile, dell’azione penale da parte dei Pubblici Ministeri; dall’altro, il potere anche esso smisurato della interpretazione della legge da parte della giurisdizione, che finisce spesso per eludere e vanificare la volontà del legislatore, e con essa il principio di legalità. Ecco perché leggerete evocata l’esperienza spagnola, che sanziona addirittura come reato la prevaricacion judicial (una suggestione molto interessante, aggiungo). Insomma, una discussione appassionante, sviluppata tra punti di vista differenti che però condividono senza riserva l’allarmante fenomeno del controllo giudiziario della politica, che si realizza attraverso la concreta applicazione di questa norma, stigmatizzato -ed anche di questo potete leggere su questo bel numero di PQM- perfino dalla Corte Costituzionale. Siamo orgogliosi di lanciare questo dibattito, e con questa formidabile qualità di contributi. D’altronde, siamo nati per questo. Buona lettura!

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