Quante volte, oramai, abbiamo detto e scritto: “mai più!”? Siamo una volta ancora a questo punto, davanti alle immagini strazianti dall’aeroporto di Kabul. Persone disperate, ammassate, calpestate, aggrappate agli aerei nella suicida illusione di poter viaggiare sui carrelli. E persone, esseri umani, che ovviamente non ce la fanno, non possono farcela e cadono giù nel vuoto per decine di metri. Davvero possiamo guardare e rimanere impassibili?
Immagini terribili destinate a rimanere come una macchia indelebile nella nostra storia, come la fotografia dell’Associated Press di Kim Phuc, 9 anni all’epoca, l’8 giugno del 1972, la bambina nuda ferita dal napalm, in Vietnam. O le immagini delle Torri Gemelle in fiamme. O tanti altri orrori che caratterizzano questi nostri anni in cui ogni volta diciamo “mai più”, ma forse solo per mettere a tacere la nostra coscienza.

È la nostra coscienza di occidentali che dovrebbe iniziare a strepitare, a ricordarci una volta per tutte la cultura e le tradizioni che ci illudiamo di avere, per invertire la rotta. Proprio così. La rotta della nostra “civiltà” va invertita. Subito dobbiamo farlo; subito va fatto, senza se e senza ma. Dovremmo aver appreso che la democrazia non si esporta con le armi. Come è possibile pensare ancora che la politica estera del mondo occidentale non può esportare in altri paesi e contesti culturali i valori della democrazia, come se fossero prodotti da vendere o peggio da imporre.
Sarebbe triste se ora abbandonassimo l’Afghanistan a se stesso o, peggio, farlo diventare un nuovo “nemico”.
Credo invece che bisogna muoversi rapidamente per guadagnare il ritardo e il discredito accumulato in così pochi giorni. Quelle immagini terrificanti da Kabul devono smuovere le nostre coscienze: sul campo è necessario dare la possibilità di lasciare il paese a chi lo desidera, a chi ha paura. E vanno lasciati entrare in Occidente, quegli afghani e quelle afghane che lo desiderano, mettendo da parte la burocrazia e con uno spirito di accoglienza e disponibilità davvero senza frontiere. Le esperienze le abbiamo già: i corridoi umanitari sperimentati in questi anni con successo, ad esempio da Sant’Egidio, dicono che è possibile. È necessario farlo e farlo subito. Così si potrà recuperare una credibilità perduta. La decisione di non abbandonare nessuno è tra quelle che vanno prese senza esitazione.

Bisogna imparare dagli errori fatti. L’appello va fatto anche all’Europa perché acceleri una sua politica estera più audace e lungimirante. Nel suo bagaglio l’Europa ha gli strumenti per interagire con la cultura – le culture – degli altri universi esistenti nel nostro mondo e intessere un dialogo sui valori, per contribuire a una convivenza pacifica. Un’Europa provinciale non aiuta né se stessa né l’Occidente né il mondo. C’è nelle corde profonde dell’Europa quell’ideale di fraternità universale che è il vero tesoro da far fruttare, da moltiplicare. Li abbiamo appresi a scuola gli ideali di libertà, uguaglianza, fraternità. A partire da quest’ultima che Papa Francesco ricorda come la “promessa mancata della modernità”. La Fraternità deve ritrovare il suo spazio culturale, economico e politico. Papa Francesco, con l’enciclica “Fratelli tutti” lo ha riproposto a tutti noi. La pandemia, da parte sua, ci ha fatto capire in maniera drammatica che siamo tutti vulnerabili e tutti legati gli uni agli altri. Questo legame di fatto (potremmo dire questa interconnessione effettiva) deve diventare una scelta politica, economica e sociale. È, appunto, la fraternità come programma anche politico. Una umanità fraterna (e quindi diversa e diversificata come sono i fratelli e le sorelle biologiche), consapevole dell’unità della famiglia umana e della casa comune che deve abitare, è l’umanità del futuro.

Oggi, abbiamo con tristezza dovuto riconoscere il fallimento di non aver capito il Paese, l’Afghanistan, dove siamo stati per venti anni. È necessario non abbandonarlo. Non possiamo andarcene e gettare la spugna. L’Afghanistan resta sempre un Paese che è parte della famiglia dei popoli. Semmai iniziamo a comprenderlo meglio. Da subito. Non domani, Oggi. Dobbiamo, ad esempio, capire meglio il tessuto complesso di quel Paese, una tela di tribù, di gruppi di culture… Ci sono commentatori che suggeriscono un’attenzione nuova allo stesso mondo talebano: sembrano apparire talebani che hanno abbandonato il linguaggio delle “fatwa” e si presentano in maniera diversa, con legami internazionali più politici che religiosi, insomma per un paese più nazionalista che islamista. Se questa evoluzione è presente va compresa e accompagnata. In ogni caso, le grandi tradizioni culturali dell’area asiatica non dobbiamo più giudicarle con parametri occidentali; vanno comprese più in profondità. È una lezione che anche la Chiesa lungo la storia ha dovuto apprendere. Gli ultimi Papi ne hanno più volte parlato.

Quando affermano che la fede cristiana va proposta e non imposta, è questo il senso di una missione che deve entrare nelle profondità delle diverse culture del pianeta. Uno sforzo singolare è rappresentato dalla scelta per il dialogo fatta a Doha nel 2019 tra Papa Francesco e Al-Tayyeb, Grande Imam di Al-Azhar con la firma del documento sulla Fratellanza Umana. È stata una significativa anticipazione del messaggio universale dell’Enciclica “Fratelli Tutti”. È bene rileggere l’inizio di quel testo: «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere».

Nella tradizione recente, a proposito della missione della Chiesa, si parla spesso di “inculturazione”, ossia di calare il Vangelo nelle culture locali. La Commissione Teologica Internazionale, in un documento del 1989, scriveva: «Il processo d’inculturazione può definirsi come lo sforzo della Chiesa per far penetrare il messaggio di Cristo in un determinato ambiente socioculturale, invitandolo a credere secondo tutti i suoi valori propri, dato che questi sono conciliabili con il Vangelo». Di fronte a quanto è accaduto in Afghanistan – assieme alle scelte più specifiche per il Paese e l’area geopolitica circostante – è indispensabile rafforzare la visione di una “fraternità universale”. Questa visione permette di correggere più facilmente gli errori fatti e rafforzare una intelligenza politica attraverso gli incontri tra le parti. Da questi incontri sgorgherà una prospettiva nuova. La “rivoluzione” nel mondo globalizzato non può non passare per la via della “fraternità”, dell’incontro, del dialogo, del rispetto. Non ci si salva da soli! È vero per il Covid-19. Sarà vero anche per le scelte politiche nell’intero pianeta.