L'editoriale
Addio a Sergio Zavoli, “Treccani” televisiva: riposerà accanto a Fellini
Sergio Zavoli era nella sua voce, in quel timbro, l’incedere, la tessitura, il tono che mostrava e infine si incideva sul nastro magnetico dei supporti audio e infine video, con la stessa assolutezza, mai sgranata, di una “voce” enciclopedica, altrove destinata alla “Treccani”.
Meglio, a suo modo, con la sua cifra stilistica, Zavoli è stato la nostra “Treccani” televisiva, il suo canone principale, tradizionale, comunque irripetibile, per asciuttezza, tenuta nel tempo; ancora adesso, riascoltandolo, mai potremmo assimilarlo alle voci dell’ormai oltretomba radiofonica dei telecronisti, i Carosio, i Filogamo, dello stesso Corrado Mantoni che annuncia la fine della seconda guerra mondiale, no, nessuna formalina del tempo a opacizzarne la voce, nel suo caso. Zavoli, qualunque argomento o oggetto prendesse per mano e microfono, “Il Giro d’Italia”, con il patema d’ogni sua tappa, con il “Processo”, una sua invenzione; o piuttosto i misteri della Repubblica, la “notte” di questa, resta intatta nella cifra della modernità.
Ora che se n’è andato saremo costretti, tutti, ancora una volta, la definitiva, a riconoscere che nel suo lavoro, il giornalista, il cronista, l’uomo, l’intellettuale, custodiva la meticolosa grazia dello studio, attitudine propria d’ogni storico. Accade sia quando, golfino blu, segue, e sono i primi anni 60, le “emissioni” televisive dedicate, appunto, all’epos primo-pomeridiano del Giro d’Italia, il suo “processo alla tappa”, il microfono da porgere, anche in piena corsa, a un Gimondi, un Merckx in lacrime perché trovato positivo al doping, un Adorni, un gregario portatore di borracce, ora trafelati ora sorridenti accanto alle miss che donano loro sorrisi e gladioli, sia quando nei primi anni 70 concepisce e vara un progetto televisivo, narrativo monumentale, “Nascita di una dittatura”. Lì si tratta, avvalendosi dei testimoni diretti ancora in vita, di restituire la genesi e i germi del fascismo; alle spalle dell’ospite, una scenografia scarna, immersa nel bianco e nero, lo schermo e una poltrona da studio, e intanto i volti e le voci di Parri, Terracini, Rachele Guidi a sciogliere il filo delle vicende: esatto, una semplice poltrona “Mim” ad accogliere i racconti altrui, e ancora, Amadeo Bordiga, il fondatore del Pcd’I, già colpito da ictus, che consegna alle teche a venire un documento irripetibile.
E ancora c’è da ricordarlo mentre, affacciato al suo balcone, nel cortile di un comprensorio popolare di Imola, nel 1964, intervista Augusto Masetti, il soldato che nel 1910 aveva sparato al colonnello inneggiando all’anarchia e contro la guerra di Libia, durante i giorni della “Settimana Rossa” del 1914: Masetti, simbolo dell’antimilitarismo, anche lì la sua voce ci consegna un racconto, lo accoglie. Definirla garbata parrebbe improprio, così come accennare all’autorevolezza, perché Zavoli in verità sta al tema, al discorso, al giornalismo, con la precisione che gli è propria, mai un picco, un aggettivo in eccesso, nel suo mestiere di cronista l’uomo deve aver compreso a fondo la regola logico-filosofica della ridondanza, che si apprende usando lo stile essenziale, icastico, del telegramma.
Verrà anche, per lui e per noi, i suoi spettatori, il racconto ulteriore di “La notte della Repubblica” (1989-1990), così da restituire e indagare, come in un basso continuo, in 18 puntate, la “strategia della tensione”: dalla strage di piazza Fontana alla rivolta del ’68, poi la nascita delle Brigate Rosse, il movimento del ’77, il rapimento e il delitto Moro, la strage di Bologna, un bouquet di ospiti preziosi per la filologia e la cronologia dei fatti, da Corrado Stajano a Pietro Valpreda, da Mambro e Fioravanti a Patrizio Peci.
Socialista, Zavoli sarà presidente della Rai dal 1980 al 1986, infine senatore della Repubblica sotto le insegne dei Democratici di sinistra e ancora con il Partito democratico, infine anche il presidente della commissione di vigilanza Rai dal 2009 al 2013. Una vita da senatore, appunto, in senso assai ampio, con onori meritati e onorificenze, Sergio Wolmar Zavoli era nato a Ravenna il 21 settembre del 1923, l’esordio nel 1943 in un giornale dei Guf di Rimini, verrà poi la radio, il cominciamento di tutto, della cifra Zavoli. Nel 2007 una laurea honoris causa dalla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata.
Era amico di Federico Fellini, conterranei, compagni di condivisioni, forse anche di avventure, certamente di pensieri, la famiglia infatti ha trasmesso al sindaco il desiderio di Sergio di «essere riportato a Rimini e riposare accanto a Federico». Di quest’ultimo, Zavoli diceva: «Aveva avuto i suoi sortilegi: donne come capodogli, fughe di Bach e marcette di clown, mari e cieli sempre azzurri. E, su tutto, un vento carezzevole: la vita». La compostezza rigorosa dell’uno accanto alla volatilità onirica dell’altro. Nel 1969 porterà Pasolini al processo alla tappa, a raccontare a Vittorio Adorni il suo amore per il ciclismo, a confessare che il volto di Vito Taccone sarebbe stato perfetto in un suo film, e intanto Zavoli, sigaretta in bocca, ad ascoltare assorto.
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