«La memoria è il modo in cui non cessiamo di raccontare a noi stessi la nostra storia e di raccontare agli altri versioni in certa misura diverse della nostra storia», affermava Alice Munro, la grande scrittrice canadese scomparsa pochi giorni fa. Unanime è stato il riconoscimento di questa maestra del racconto. Il grande critico letterario Harold Bloom, che ha curato nel 2009 un libro critico su di lei, ha scritto che «il suo non è un genio visionario, tanto meno simbolista. L’arte di Alice Munro è strettamente mimetica, anche se ciò che imita è l’ingarbugliata trama che tiene le fila della nostra sorte. Una sorta di ordinaria infelicità, mai così colorata, tuttavia, è il carisma della maggior parte dei suoi personaggi».

Munro ha scavato nella memoria dei suoi personaggi lungo decine e decine di racconti semplici ma non minimalisti, ed è in questa chiave che in America venne definita “la nostra Cechov”. È un paragone suggestivo. E se possibile, i racconti di Munro sono ancora più rarefatti di quelli del grande scrittore russo, e più preziosi: le cose infinitamente piccole diventano sotto la sua mano spaventosamente grandi. Le raccolte (Einaudi, la sua traduttrice è Susanna Basso) sono molte. Noi ne indichiamo tre: “Nemico amico amante…”, “In fuga”, “Chi ti credi di essere?”. Ma sono tutte meravigliose.