Il nome di Franco Cassano, morto ieri nella sua Bari a 77 anni, rimarrà legato senza dubbio a quel movimento di rinnovamento negli studi sul Mezzogiorno d’Italia che ebbe luogo negli anni a cavallo fra il secolo scorso e questo, e di cui il “pensiero meridiano” da lui elaborato fu forse l’espressione più tipica. E sicuramente quella che travalicò, più delle altre, l’ambito degli specialisti. Il libro che con questo titolo, lo studioso pugliese pubblicò da Laterza nel 1996, e che fu presto tradotto nelle principali lingue, rompeva radicalmente con gli studi del passato non semplicemente nei contenuti, ma nella forma, proponendo di fatto un nuovo paradigma.

Cassano, detto in altri termini, proponeva di guardare al Sud in un modo diverso, non cioè a partire dalle categoria di “arretratezza”, di un “meno” da colmare per raggiungere gli standard economici, sociali e civili del resto dell’Europa, ma mettendo al centro ciò che esso effettivamente era: soggetto e non oggetto di una storia scritta da altri e che correva nel cuore pulsante degli altri. La specificità del Sud era diversità e non deficienza, e in prospettiva poteva addirittura diventare una risorsa o un vantaggio competitivo. Le differenze meridionali andavano infatti valorizzate e su di esse si poteva e doveva puntare per costruire un modello nuovo di società non legato ai valori forti della modernità: il progresso, la produttività, l’efficienza, la velocità, la razionalità strumentale.

In qualche modo, il Sud, proprio perché non era passato per l’industrializzazione e proprio perché la sua gente aveva avuto un atteggiamento aperto e tollerante verso i popoli con cui era venuto a contatto, si sarebbero potuto trovare a proprio agio nella nuova società postindustriale e globalizzata che andava maturando in quegli anni. L’apertura al Mezzogiorno d’Italia la dava la sua storia e la geografia: calato nel Mediterraneo, posto all’incrocio di culture e civiltà diverse, esso aveva appreso l’arte della mediazione, della tolleranza, della mescolanza e del rispetto fra diversi.

Credo che per capire la forza dirompente che ebbe il pensiero meridiano bisogna riflettere in una doppia direzione: da una parte, storicizzandolo, e quindi considerandone i limiti storici che oggi, un quarto di secolo dopo, possiamo vedere tutti; dall’altra, evidenziando ciò che esso ha contribuito a far superare, e cioè in concreto una certa visione asfittica della “questione meridionale” che fu propria storicamente del cosiddetto “meridionalismo”, il quale pure in verità ebbe al suo interno tante sfaccettature quante almeno furono le tradizioni politiche dell’Italia post-unitaria (la laica o liberaldemocratica, la cattolica, la socialista, la comunista). Dal primo punto di vista, è indubbio che il pensiero di Cassano si fosse formato in ambiente marxista, più o meno eterodosso, dalla giovanile prossimità alla école barisienne dei Vacca e De Giovanni fino alla scoperta di quella vasta congerie di autori post strutturalisti francesi (Foucault e Derrida soprattutto) che erano approdati al postmodernismo relativista.

Non è difficile ritrovare in quelle pagine di Cassano, nel richiamo alla differenza ma anche alla riscossa di tutti i Sud del Mondo e dell’area mediterranea del vecchio continente, una eco della letteratura postcoloniale che allora andava pure sviluppandosi e delle sue nemmeno troppo vaghe ascendenze gramsciane (si pensi solo alle pagine sulle culture subalterne e le tradizioni popolari). C’era l’idea, nel pensiero meridiano, sia di un alleggerimento dell’essere, e quindi di una razionalità fortemente temprata dalle passioni, sia di una globalizzazione altra, cioè non incentrata su parametri economicisti.

E c’era sì una messa in luce dell’importanza del tragico in politica, ma anche una ottimistica valutazione del predominio nell’uomo delle passioni calde, cioè quelle appunto mediterranee della socialità e della convivenza, su quelle fredde che generano conflitti e dissoluzioni. Terrorismi, sovranismi, la tragedia dell’immigrazione (da qualsiasi punto la si consideri), avrebbero presto dissolto questo residuo di ottimismo; così pure il procedere del processo di finanziarizzazione di una economia sempre più lontana dal mondo reale.

L’impressione è che oggi, al Mezzogiorno d’Italia, ci si trovi solo di fronte a macerie ideali: il pensiero meridiano ha fatto il suo corso, ma ha anche segnalato, ad avviso di chi scrive, l’improponibilità del meridionalismo classico. Anch’esso finito da un bel po’, e anche grazie al pensiero meridiano. Ovvero a quella parte di esso che criticava i peggiori caratteri dei meridionali, l’autoassoluzione e il vittimismo, le cifre di una terra maledetta che non voleva prendersi la responsabilità di farsi soggetto di storia.

Certo, anche oggi in molti si illudono che possa essere un’autorità terza, lo Stato o anche l’Europa, a farsi carico di “salvare” il Mezzogiorno. E la pandemia ha addirittura reso necessarie le politiche di sussidi e assistenzialismo a pioggia, non solo al Sud ma in tutta l’Italia. Che però la “ripartenza” del Mezzogiorno e del Paese non possa che avvenire in altro modo, è non solo chiaro ma si potrebbe dire che è ora necessitato.