Sergio Staino, l’intellettuale più creativo e ostinatamente ottimista e di sinistra, sarà ricordato oggi nella cerimonia di commiato nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Chissà se lo aveva messo in conto di andarsene così, lui che aveva ancora milioni di cose da disegnare e scrivere. Da strenuo combattente fino all’ultimo respiro, lottava da quasi un anno contro il colpo a tradimento di una feroce malattia neurologica che lo ha ammutolito e inchiodato per undici mesi di sofferenze su un letto di ospedale e poi su una sedia a rotelle, attraversando crisi e rianimazioni, recuperi e riabilitazioni fino al brevissimo ritorno a casa nel settembre scorso. E poi l’ultimo drammatico ricovero. Abbiamo tutti sperato nel ritorno da dove lo aveva cacciato la malattia tra medicine, cannule, siringhe, tubi e tubicini sapientemente gestita, ma se ne è andato a 83 anni vissuti intensamente. Chi era Staino? Si poteva scherzare con lui sulla sua posa sempre più somigliante al mitologico “grande vecchio” o all’adorabile saggio dalla barba bianca e il bastone, seguito dall’immancabile vaffanculo se glielo ricordavi.

Ma Sergio è stato il raro caso dell’Homo Novus rinascimentale, ha concentrato su di sé tante cose insieme. Era un Dario Fo con la matita, un Benigni dalla battuta fulminante, un poeta perennemente ispirato, un raffinato giornalista, un genio della satira, un operatore culturale come pochi, un organizzatore irrefrenabile, un polemista indomabile, uno scopritore di talenti, il terapeuta della sinistra smarrita. Aveva il dono di farci ridere e sorridere amaro ogni mattina con una sua vignetta. Era spinto, simultaneamente, dall’entusiasmo e dall’allegria esplosiva, dall’indignazione e dalla rabbia contro le debacle della civiltà, dalla curiosità sfrenata e dall’amore per tutto ciò che era vita. Era un lottatore continuo per il suo originale “Stainismo”, una sorta di comunismo immaginario e libertario, la patria dei più indifesi di questo mondo. Scaricava sul suo alter ego Bobo delusioni e frustrazioni a nome di generazioni di militanti, ma nello stesso istante si ricaricava dell’entusiasmo del ricostruttore, senza mai mollare. Era intollerante verso le nullità e i mediocri al potere e i tic e gli errori soprattutto del suo mondo, la sinistra e il centrosinistra. Ha disegnato praticamente per una vita intera, ha scritto libri, ha girato film, ha diretto giornali, e ha fatto in tempo anche a lasciare un sorriso anche sul quotidiano dei vescovi, l’Avvenire, col suo Jesus, il barbuto e capellone della Galilea “che da grande vuol fare il profeta”.

Conoscendolo da un bel po’, raccogliere i sui ricordi viene facile, tanto più che Sergio era un narratore, a lui piaceva raccontare e raccontarsi. Ricordava la sua nascita nel 1940 nel delizioso paesino di minatori dell’Amiata, la Piancastagnaio circondata ancora dalle antiche mura intorno alla Rocca Aldobrandesca. Della sua famiglia di contadini e di suo padre, il carabiniere del posto, che quando si innamorò di sua madre Norina dovette fare i conti con suo nonno Ottavio: “Norina, mai con un carabiniere!”. Vinse però l’amore, anche se due giorni dopo la sua nascita il papà fu mandato in guerra sul fronte albanese, lasciando anche loro nella miseria più nera. E allora la Norina gli faceva passare il tempo a disegnare con la matita. Dopo la Liberazione, suo padre tornò vivo e fu trasferito a Firenze, dove fece le elementari e la media e lavoretti vari iniziando dalla vendita di bibite nei cinema parrocchiali, e quindi un corso per artigiani che lo spinse in una fabbrica di ceramiche artistiche. Concluse però l’università portando con sé tutto l’orgoglio del primo Staino laureato, e in architettura poi, e del primo Staino insegnante

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corché precario di applicazioni tecniche a Scandicci. La certezza di essere sempre dalla parte giusta della barricata politica però barcollò proprio nell’esordio giovanile da militante nella scheggia più minoritaria e più settaria.

Nel 69, l’architetto Staino si ritrovò infatti iscritto al Partito Comunista d’Italia marxista-leninista, i gruppettari più moralisti, filomaoisti e fissati col regime albanese di Enver Hoxha, e divenne membro del comitato provinciale di Firenze. Ma capì tutto quando lo selezionarono per l’epico viaggio-scuola a Tirana e lui, bell’e pronto a imbarcarsi, venne fermato dai tutori dell’ortodossia. “Sospettarono fossi una spia dell’occidente capitalista”, sorrideva a raccontarcela. Insomma, un infiltrato. Ma il motivo? “La mia barba. La barba era un forte indizio della mia deriva piccolo borghese, così mi dissero. Io non ci pensavo a togliermela e allora i capi mi misero fuori dalla delegazione. A quel punto però feci la dolorosa abiura, e me la tagliai. Ma quelli scoprirono un altro grave indizio di deriva morale e politica che portavo addosso: i pantaloni a zampa d’elefante. Un altro evidente cedimento borghese. E allora feci la dolorosa seconda abiura facendoli restringere, pur di avere a tutti i costi il visto d’ingresso dal regime albanese. Mi vergogno ancora e mi vergognerò sempre di aver fatto parte di quella setta, e di essere stato così stupido da non aver capito prima che storia era quella. E me ne andai anche per il loro rifiuto di partecipare al corteo sindacale unitario del primo maggio”.

Dieci anni dopo, il 10 ottobre del ’79, dalla sua matita nacque Bobo. Lo disegnò come in autoanalisi, identico a lui, stessi tratti fisici, stesso stato di turbamento e crisi politica cronica, stessa rabbia e stesse frustrazioni di una generazione di incalliti oppositori. Tirò fuori le prime strisce dal cassetto e le inviò a Oreste Del Buono. L’allora mitico direttore del mensile “Linus” gli propose di raccontare le avventure dell’intera famiglia Bobo con la moglie Bibi, la figlia Ilaria, il figlio Michele, il vecchio Molotov, la vicina Erna. Le strip uscirono a dicembre, e fu subito boom. E lui doppiamente orgoglioso perché piacquero anche all’inarrivabile Umberto Eco. Bobo era il prototipo del militante di sinistra, per status un sofferente continuo, l’esemplare della dilaniata base militante sempre più confusa e bisognosa della terapia-Staino. “Bobo – raccontava Sergio – rappresentava il mio bilancio politico dopo un decennio di militanza fanatica al fianco degli albanesi e dei cinesi. Avevo buttato via dieci anni. E tra me e Bobo l’identificazione è stata totale, e cominciai a scaricare addosso a lui i nervi scoperti della mitica base che ha le idee chiare, vuole un progetto politico forte. E lui mi ha sorretto per tutti questi anni”.

Aveva però anche un conto aperto con la vita, Sergio. Da quando, progressivamente, è diventato cieco. Con un coraggio da leone ha sfidato la peggiore delle disabilità per un illustratore, l’esaurirsi lento ma ineluttabile della vista. Un brutto colpo fin dal 1977, dalla diagnosi all’ospedale Maggiore di Trieste di retinite degenerativa. “Mi dissero che avevo la retina di un uomo di 120 anni, e io ne avevo solo 37. Ho pianto per giorni, e il terrore di non poter più disegnare mi angosciava”, ricordava. Sapeva che sarebbe arrivato quasi alla cecità totale. E se ha retto come ha retto, lo deve soprattutto all’amore sconfinato di Bruna, la sua amatissima roccia, l’instancabile compagna di una vita.

Cominciò allora a reagire, a usare le mani e l’udito, a toccare e ascoltare e a disegnare andando sempre più a memoria. La raccontava con un fondo di tristezza la sua cecità. Ma intanto collaborava anche con il Messaggero e La Stampa, e nel 1982 iniziò con l’Unità, su pressing di Emanuele Macaluso. E lì, nel 1986, inventò il settimanale satirico “Tango” che sopravvisse per 127 numeri come inserto dell’organo del Pci, ma con la sua libertà totale e il turbamento epocale ai piani alti delle Botteghe Oscure. Sergio fece da scudo umano contro ogni tentativo di chiuderlo, avendo aggregato il top della satira dell’epoca: Pazienza, Perini, Calligari, Altan, Ellekappa, Echaurren, Riondino, Serra, Luttazzi, Guccini, Gino e Michele.

Ma accadde che Giorgio Forattini lo sfidò a mettere alla berlina anche i dirigenti del Pci. Staino rilanciò con il “Nattango”, la vignetta-parodia col tratto di Forattini con il segretario Alessandro Natta che danzava nudo al ritmo dell’orchestrina del duo Craxi e Andreotti. E infierì la settimana successiva disegnando Natta suonatore e Craxi e Andreotti ballerini. Insomma, segnò la fine del culto della personalità ma anche la fine di Tango. A Botteghe Oscure non erano tanto spiritosi, anche se tre mesi dopo, il 16 gennaio 1989, il vuoto per la perdita di una fascia di nuovi lettori fu riempito da “Cuore” diretto da Michele Serra, sul quale collaborava. Tango era intanto diventato il programma di Raitre “Teletango” nel 1987, e poi nel 1993 “Cielito lindo”.

E arrivò la regia dei film come “Cavalli si nasce” nel 1988 e “Non chiamarmi Omar” nel 1992 da un racconto di Altan. E poi tantissimi libri, cataloghi, migliaia di feste de l’Unità segnando il legame sentimentale di una lunga storia d’amore politica e culturale, la direzione artistica di teatri e di rassegne come il Premio Tenco. Sergio ha però continuato a combattere contro il buio. Da artista visivo disegnava ormai a memoria, incredibilmente riusciva a illustrare il concetto e l’idea e il disegno e la battuta che gli usciva spontanea. Buttava giù la bozza, e suo figlio Michele padrone della sua tecnica nell’editing finale adeguava le proporzioni, definiva la colorazione sulle sue indicazioni perché lui nella sua mente vedeva forme e colori delle vignette. Tutti i santi giorni creava vignette, ovunque fosse, e arrivò anche la direzione de l’Unità, proprio quella renziana riportata in edicola, dall’8 settembre del 2016 al 6 aprile del 2017. Sulle colline di Scandicci, nel silenzio di San Martino alla Palma, disegnava con la tecnologia attraverso lenti di ingrandimento sempre più potenti e l’enorme schermo del computer per ipovedenti, con la tecnica digitale e la penna touch. Lavorava con quel po’ di luce e chiaroscuro che riusciva ancora a cogliere e man mano si riducevano. Ma Sergio aveva la vista più lunga di tutti.