Il primo G7 senza Donald Trump è stato già archiviato. Con una nuova presidenza americana e grandi aspettative, parzialmente disattese. Bene l’annuncio dei sette paesi sui vaccini: 870 milioni di dosi donate nel prossimo anno. Anche se, a ben vedere, il volume necessario per assicurare una copertura efficace anche nei paesi emergenti sarebbe di gran lunga superiore. Ricordiamolo: nei paesi emergenti, è stato somministrato solo lo 0,3% del totale delle dosi. Con tutti i rischi connessi. Ma non si parla solo di vaccini: in base all’ultimo rapporto Ocse sugli aiuti allo sviluppo del 2020, il nostro paese mostra dati sconfortanti.

C’è da dire che, stando al report, l’ammontare complessivo degli aiuti stanziati equivale a circa l’1% degli aiuti mobilizzati nel corso degli ultimi anni dai paesi avanzati al fine di supportare i propri sistemi economici nazionali nella lotta al Covid e alla crisi che ne è conseguita. Nonostante ciò, nel 2020 gli aiuti pubblici allo sviluppo hanno raggiunto il picco massimo mai registrato, pari a oltre 161 miliardi di euro, con un incremento del 3,5% in termini reali rispetto al 2019. E i paesi donatori appartenenti al G7 hanno contribuito con il 76% al totale degli aiuti pubblici allo sviluppo stanziati. Tuttavia, mentre in 16 paesi gli aiuti pubblici allo sviluppo sono aumentati (con i maggiori incrementi registrati in Canada, Finlandia, Francia e Germania, tra gli altri), in 13 paesi si sono ridotti. Potrà non stupirci rilevare che, insieme all’Australia, alla Grecia, al Portogallo e al Lussemburgo, l’Italia è uno dei paesi che hanno contratto il proprio contributo allo sviluppo dei paesi emergenti. Il nostro paese taglia i fondi di un ammontare pari a 270 milioni di euro (la contrazione in termini percentuali è pari ad oltre il 7%).

Ricordiamo anche che, in base agli impegni previsti dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, il target di aiuti pubblici allo sviluppo dovrebbe ammontare allo 0,7% del Pil. Nel 2020, sono solo 6 i paesi che hanno rispettato questo vincolo, ovvero Svezia, Norvegia, Lussemburgo, Danimarca, Germania e Regno Unito. La media dei paesi Ocse si ferma allo 0,50%. Ma il nostro paese si colloca considerevolmente al di sotto di tale soglia, con una quota pari allo 0,22% del Prodotto Interno Lordo. Non si parla solo di numeri. Ma di una nuova consapevolezza. E di un richiamo alla responsabilità. E questa è una prospettiva che dovremmo assumere anche nelle relazioni di cooperazione internazionale. Se uno degli effetti della globalizzazione è stato rinvenuto nella contrazione delle distanze, che ha consentito da un lato di delocalizzare parti della produzione e dall’altro di avere la percezione che nessun luogo fosse lontano, il nuovo paradigma (o, in altri termini, la nuova normalità, di cui tutti parliamo ma che ancora assume contorni quantomai indefiniti) richiede una riorganizzazione dei nostri punti fermi.

Abbiamo ben compreso (auspicabilmente) che una crescita lineare (in alto a destra) e indefinita non è possibile: in natura, anche gli alberi e le foglie sanno quando fermarsi. Nulla cresce per sempre. Allo stesso modo, abbiamo vissuto sulla nostra pelle la necessità della cura: del prendersi cura e del beneficiare della cura altrui, che abbiamo sperimentato con eguale urgenza. Ora è il momento di tradurre quanto abbiamo appreso in questo anno all’interno dei meccanismi che ritenevamo consolidati. Nei nostri modelli di crescita, che necessitano più che mai di un approccio circolare e sostenibile, che consideri nuovamente anche l’ambiente (o la terra, come veniva definita ancora sino a qualche anno fa nei manuali di microeconomia) quale un fondamentale fattore di produzione.

E in questa direzione, un utilizzo attento dei fondi di Next Generation EU potrà rivelarsi di grande supporto. Ma anche nella cura. E la cooperazione allo sviluppo ne rappresenta l’emblema: perché se c’è qualcosa che la pandemia e tutta la situazione dolorosa e complessa che ne è conseguita ci hanno insegnato è proprio che nessuno si salva da solo.