Già nel 2017 la “Circolare Pignatone”, all’epoca procuratore della Capitale, aveva preteso che le iscrizioni avvenissero solo in presenza di “elementi indizianti specifici” al fine di evitare che si procedesse a iscrizioni immotivate, stante che “la condizione di indagato è connotata altresì da aspetti innegabilmente negativi”. Ed è per questo che in quella circolare si invitava a un “ponderato esercizio” di quello speciale potere. La riforma Cartabia ha poi provveduto a modificare lo stesso articolo 335 del codice di procedura, esigendo così espressamente l’esistenza di indizi a carico della persona iscritta. La questione della natura di “atto dovuto” dell’iscrizione nel registro degli indagati è rimasta negli anni piuttosto sottotraccia, per poi esplodere improvvisamente con riferimento al caso del mancato arresto e del rimpatrio del comandante libico Almasri.

L’atto dovuto

Per ovvi motivi, l’iscrizione dei vertici del governo nel registro degli indagati della Procura capitolina – con successiva trasmissione degli atti al competente Tribunale di ministri – ha portato la questione agli onori della cronaca. L’Anm – che si è immediatamente impegnata a correggere il nome dell’atto inviato al presidente del Consiglio dal dottor Lo Voi, precisando che si trattava non di un avviso di garanzia ma di una “comunicazione di iscrizione” – ha sottolineato come la legge imponga al procuratore della Repubblica, “ricevuta la denuncia nei confronti di un ministro, ed omessa ogni indagine, di trasmettere entro il termine di 15 giorni, gli atti al Tribunale dei ministri”. L’invio del procuratore era, dunque, un “atto dovuto”. Nella ricostruzione, così operata, l’attività di iscrizione nel registro degli indagati è del tutto sfuggita, così che a questa omissiva errata corrige si sono accodati quasi tutti i media, che hanno definitivamente decretato la modifica del codice di procedura penale, affermando che tra il deposito di una denuncia e l’iscrizione del ministro denunciato sussiste un inevitabile automatismo. Il trovarsi indagati è accidente inevitabile al quale è impossibile sottrarsi, quasi fosse la forza di gravitazione universale. Vale la pena sottolineare questo bizzarro contesto non perché abbia un suo qualche effettivo rilievo, ma perché appare sintomatico di una rimozione. Non sapremo mai – trattandosi di un’attività che difficilmente lascia traccia – se l’autore dell’iscrizione abbia effettivamente ponderato i contenuti specifici della denuncia, che erano invece sfuggiti ai più. Ma non è questo quello che interessa.

Il trattato ignorato

Ciò che è stato rimosso in questa complicata vicenda è il dato certamente più rilevante, che precede ogni altra valutazione di merito, relativo alla sindacabilità di una scelta politica del governo da parte della magistratura. Le opacità rilevate nei modi e nei tempi della vicenda e la consistenza dell’accusa (ovvero di aver ignorato un trattato internazionale cui lo Stato italiano si era impegnato a dare esecuzione) avrebbero dovuto avere come logica conseguenza che i ministri ne riferissero davanti al Parlamento, sede opportuna del controllo democratico sulle scelte del governo, sulle sue azioni e sulle sue omissioni. Tuttavia in Italia vige una sorta di bulimia giudiziaria, in virtù della quale nulla è dato al di fuori del processo penale. Quasi che ogni strumento alternativo di controllo democratico, di valutazione etica, di discernimento sociale del bene dal male, non potesse che essere appannaggio della magistratura.

L’oracolo dei magistrati

Di fronte a questa opzione giudiziaria è retrocessa da tempo la politica, e sono molti i partiti e i movimenti che hanno fatto della voce oracolare dei magistrati il loro primo motivo identitario, immaginando che solo le verità accolte dai promotori del potere giudiziario siano verità spendibili nella collettività. Ora l’atto dovuto ha sancito l’imprimatur di esclusività del côté giudiziario, congelando la scena. Quella che avrebbe dovuto essere un’occasione preziosa di confronto politico e civile su un tema di terribile attualità, quale è quello dei limiti della “ragion di stato” di fronte al prezzo pagato in termini di dignità e di vita degli ultimi, si è spenta dentro la dissolvenza incrociata dell’atto dovuto.