Morire da latitante, morire di latitanza. Con due bambini che nasceranno senza padre. Proprio mentre il grattacielo di accuse si era sgretolato pezzetto dopo pezzetto, la sorte ha portato via Amedeo Matacena, costretto a lasciare l’Italia e a rifugiarsi a Dubai per sfuggire a inchieste calabresi una più assurda dell’altra. Basti solo dire che i provvedimenti di custodia cautelare da cui l’ex deputato di Forza Italia era inseguito erano fondati solo sul solito reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa.

La maledizione calabrese, dove tutto pare essere ‘ndrangheta, nella testa di alcuni pm. Un’aggravante che, proprio un mese fa, era caduta come un birillo nell’inchiesta di Reggio Calabria dal simpatico nome di “Breakfast”. La gip Vincenza Bellini aveva non solo accolto la richiesta di revoca della custodia cautelare richiesta dagli avvocati Marco Tullio Martini e Renato Vigna, ma aveva anche disposto il dissequestro di alcuni beni. Proprio come aveva già fatto nel maggio scorso la corte d’appello di Reggio Calabria nei confronti di alcune proprietà della moglie di Matacena, Chiara Rizzo.

Amedeo non è mai stato un personaggio famoso. Imprenditore e figlio di imprenditori, decisamente benestanti, ma nulla di più. Era un vero liberale, non solo di cultura, ma di appartenenza, un ragazzo della scuola di Alfredo Biondi e Antonio Martino, per intenderci. Ma se le inchieste nei suoi confronti hanno conquistato il circo mediatico è anche perché la sua vita e quella di sua moglie si sono intrecciate a un certo punto con quella del ministro Scajola, che cercava di dare qualche buon consiglio alla famiglia. Boccone grosso, per certi ambienti. Fu così che una certa mattina del 2014 colui che oggi è sindaco di Imperia e presidente della provincia si ritrovò, mentre era a Roma in albergo, a subire l’irruzione di sette agenti in camera all’alba. E poi prelevato e impossibilitato per sei giorni a comunicare con la moglie e con gli avvocati. Infine un mese di carcere e sei di domiciliari. Una condanna in primo grado e l’appello il prossimo 27 settembre, pur con il reato ormai prescritto.

Un’inchiesta fatta di carta, fondata su reati insignificanti se privati dell’aggravante mafiosa, come l’intestazione fittizia di beni per Matacena, “procurata inosservanza della pena” per Scajola e Chiara Rizzo, sospettati di aver tentato di favorire una latitanza che era già in corso , mentre Matacena era a Dubai, arrivato lì con le proprie forze. Era bastata una banale intercettazione per apparecchiare l’inchiesta “prima colazione”. Che cosa ci entrassero Matacena, la moglie e l’ex ministro con la ‘ndrangheta ancora non si è capito. E non si capirà, quando gli ultimi pezzettini di queste inchieste che sono tutte solo italiane saranno chiusi per “morte del reo”.

Reo? Persino gli Emirati Arabi, che non sono certo campioni di diritto e di diritti, possono darci qualche lezione, al riguardo. Anche a Dubai infatti, come nel resto del mondo, il codice penale non prevede il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Così nei mesi scorsi, benché la ministra Cartabia, proprio come fece nei confronti dei rifugiati parigini, si fosse impegnata personalmente nel richiedere e sollecitare l’estradizione di Amedeo Matacena, questa non è stata mai concessa, proprio perché il reato non c’è. Del resto non esiste neanche nel codice penale italiano, ma viene usato solo per poter intercettare e applicare la custodia cautelare. Potete riporre le manette, cari magistrati calabresi, ora Amedeo si è liberato di voi. Non so se voi sarete liberi dalla vostra coscienza.

 

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.