“Giustiziare” ottantuno persone in un solo giorno non era mai avvenuto nella terra di Saud. È difficile immaginare come una tale mattanza sia potuta accadere nell’arco di una sola giornata. Si dice “giustiziare” ma non v’è nulla di più opposto all’idea di giustizia quanto questa pratica sommaria del bene con cui si pretende di compensare il male arrecato. Le autorità saudite non hanno rivelato se i “giustiziati” siano stati uccisi in modo tradizionale mediante decapitazione o tramite fucilazione. Non lo sapremo mai perché i loro corpi non verranno restituiti alle loro famiglie per paura che i funerali diventino oggetto di una rinnovata protesta, preludio di future vendette. Ottantuno esecuzioni! Che siano decapitazioni o fucilazioni, ottantuno riti patibolari della legge divina si sono svolti all’ombra del tempio di Dio.

Neanche a voler vedere un piccolo esercito di boia assunti allo scopo e chiamati a un lavoro straordinario dall’alba al tramonto. Ottantuno condannati portati nel campo dell’estremo supplizio e, uno alla volta, con le mani legate dietro la schiena, costretti a chinarsi davanti al loro carnefice. Il fucile puntato di un plotone o la lunga spada della decapitazione sguainata ottantuno volte per fare giustizia nel nome di Allah. Immaginate: la sabbia gialla e assolata del deserto irrorata di sangue ottantuno volte in un giorno. Ottantuno esecuzioni sono state la più grande operazione di giustizia capitale nella storia del regno del deserto. La metà delle persone “giustiziate” proveniva dalla regione orientale del Qatif popolata dalla minoranza sciita del Paese, un’area ribelle che ha assistito a manifestazioni anti-governative sempre più accese da quando la Primavera Araba ha colpito la regione nel 2011. Un peccato d’origine aggravato, forse, da altri e più gravi peccati.

È stata una esecuzione “salvifica”, ha giustificato il regime saudita, contro la minaccia alla pace e all’ordine del mondo intero. Le esecuzioni del 12 marzo avrebbero coinvolto terroristi stranieri e persone condannate per “aver ucciso uomini, donne e bambini innocenti”. Secondo gruppi per i diritti umani, alcuni dei giustiziati sono stati anche torturati, la maggior parte dei processi condotti in segreto. In alcuni casi, secondo i documenti ufficiali, non v’era alcuna traccia di sangue nei reati addebitati. Altri uccisi erano accusati di avere “credenze devianti”, una formula che comprende sia il fanatismo islamico violento dei sunniti “giustiziati” per appartenenza ad Al-Qaeda e allo Stati Islamico sia la versione sciita dell’Islam propria degli Houti anch’essi uccisi nell’infornata di esecuzioni effettuate a tutela della pace sociale e religiosa del regno saudita. Quando, alcuni giorni dopo la mattanza, i volti dei condannati sono stati rivelati, si sono visti tra loro giovani uomini, alcuni appena adolescenti al momento dell’arresto, con la barba rada e il sorriso sulle labbra.

Un’immagine straziante mostra Hussain Ahmed Al-Ojami che tiene in braccio il suo giovane figlio. È stato un orribile rito sacrificale, una mattanza di piccoli agnelli sull’altare della guerra santa al terrorismo consumata nei giorni in cui il mondo ha visto l’indicibile, l’impensabile avvenire in Europa, nel cuore dei suoi valori universali, dei diritti umani inviolabili alla vita, alla libertà e alla sicurezza degli individui. È stata la terza uccisione di massa del genere nei sette anni di regno di re Salman e di suo figlio Mohammed, il principe ereditario. Il bilancio delle vittime ha persino superato l’esecuzione del gennaio 1980 di 63 militanti condannati per aver sequestrato la Grande Moschea della Mecca. Nel 2018, dalle pagine del “Time Magazine”, Mohammed bin Salman aveva annunciato al mondo l’alba di un rinascimento saudita, meno avvolto dal velo ultraconservatore della legge islamica. Il suo piano era quello di limitare la pena di morte all’omicidio. Invece, nel braccio della morte saudita ci sono ancora prigionieri di coscienza, altri arrestati da bambini o accusati di crimini non violenti. Dopo la brutale furia giustizialista degli ultimi giorni, anche su di loro incombe ora un pericolo mortale, se nulla accade, soprattutto da parte di chi ha a cuore la vita di persone “colpevoli” che hanno attentato alla vita di persone “innocenti”.

Nella galleria di foto dei giovani condannati a morte si vedono ragazzi indossare magliette della squadra del cuore, anche di squadre che militano nella Premier League. Boris Johnson ha appena concluso la sua visita in Arabia Saudita. Era andato per convincerla ad aumentare la produzione di petrolio per compensare la carenza di carburante russo perso a seguito delle sanzioni successive all’invasione dell’Ucraina. Dopo la carneficina compiuta in nome della pace e della giustizia, ci saremmo aspettati da parte saudita piccoli atti di segno diverso, almeno la moratoria di un giorno sulla pena di morte. Invece, proprio al suo arrivo, Johnson è stato accolto da un luccichio di spade sguainate che hanno fatto rotolare altre tre teste.