Immobilismo e opportunismo
Basta agonia, salvate la Calabria o uccidetela!
Se le disgrazie altrui si utilizzano a mò di consolazione, si capisce che l’utilizzatore non versi in splendide condizioni. La disgrazia per eccellenza, in Italia, è diventata la Calabria, quotidianamente c’è un suo male che arriva mediaticamente a lenire il male nazionale: dalla sanità, alla politica, all’assetto idrogeologico, ai rifiuti. È un laboratorio infinito, in cui si produce l’orrore. E lei, la Calabria, se ne sta appesa per il collo al pendolo di un orologio sfasato, che oscilla per gran parte del tempo da un solo lato: quello della tragedia.
Di tanto in tanto spezza il blocco e passa nell’altro campo: quello della farsa. Sta fra un necrologio e una cartolina: si legge male la Calabria in bilico fra le Procure e il cinema, il gotico e il pacchiano. Poiché queste sono le sole lenti di lettura, ovviamente si legge male, con un unico giudizio: irredimibile Calabria. E non si può fare un torto a chi, da fuori, veda una terra perduta: da parecchi anni è sull’orlo di un burrone, sul perché la lascino in bilico, sulla mancanza dell’ultimo calcio bisognerebbe interrogarsi. Basterebbe poco, un colpo e cesserebbe il battito. Al contrario, servirebbe un impegno eccezionale per allontanarla dal dirupo, portarla lontano dal pericolo e trarla in salvo.
Invece: nessuno vuole ammazzarla e nessuno vuole salvarla. C’è chi si nutre della sua agonia e chi trae giovamento dalla sua sopravvivenza. Massima calabrese infallibile recita: nulla è come sembra, trova a chi giova e troverai il colpevole. Se la si usasse avremmo una narrazione diversa dal racconto fasullo in uso. Sull’abisso, prossimi all’irredimibilità, i calabresi, non ci sono arrivati di colpo, vi sono stati condotti passo dopo passo. Ora, è vero, è inutile rivedere gli errori, il passato è passato, ma la condizione di prossimi agli inferi dipende tutta da ciò che hanno fatto loro e da ciò che loro si sono lasciati fare. Ognuno si prenda le colpe che ha, dopo i calabresi ci andranno all’inferno, ma non è che dovranno farlo chiedendo pure scusa ai carnefici? Gli hanno fatto, e si sono lasciati fare: che il popolo calabrese dopo millenni di stanzialità sia finito preda della irresistibile partenza, si è svuotato un mondo, che ovvio non era felice.
Da metà Ottocento, a oggi, le nuove generazioni sono state mandate via. Una terra senza sangue giovane non cambia. Non è questione sia migliore chi parta o chi resti, è questione della mancanza della parte vitale di un corpo, che non c’è stata per lottare, lavorare, costruire. Ai rimasti è stato insegnato l’arrangiarsi, il piegarsi e, senza inalberarsi, in tempi recenti o remoti, tutti hanno avuto qualcuno che si sia piegato. I rimasti si sono trovati schiacciati fra uno Stato lontano, e indifferente, e un potentato locale spregiudicato e spietato, dotato di un formidabile cane da guardia: la ‘ndrangheta.
Si è vissuto così, fra la costrizione a partire e la necessità di compromettersi per vivere, e un padre o un nonno o un bisnonno si è piegato pure per gli integerrimi di oggi, pure per i moralizzatori. La Calabria non ha mai vissuto la normalità in nessun settore: lavoro, sanità, giustizia, viabilità, istruzione. Per decenni tutto è viaggiato in un certo modo. E non è che nel resto del Paese abbia imperato la perfezione, anzi, il Sud ha subito di tutto, ma certo non ha imposto totalitarismi politici o economici. Certo è che oggi la Calabria sia un fenomeno da baraccone, buona per divertire, consolare.
I calabresi hanno la colpa gravissima di non aver lottato da subito per la propria libertà. Dopo sono diventati cani alla catena che cialtroni di fuori e traditori di dentro hanno condotto dove fosse utile a loro. E adesso sono prossimi all’irredimibilità, e ancora gli vengono impartite lezioni sulle loro colpe, e ancora gli inviano Messia con la promessa di salvezza; e ancora, loro, si lasciano raccontare, irretire. Ancora non trovano la forza di fare l’unica cosa che abbia davvero dignità.
Lottare, provare a essere liberi da nemici esterni e traditori interni, che sono ancora gli stessi, che lì portano ancora gli stessi nomi di famiglia. E l’Italia potrebbe provare a far qualcosa, invece di consolarsi dondolando il capo davanti al quadro dell’orrore: come l’ambasciatore di Hitler a Parigi, davanti alla Guernica di Picasso, senza capire che la Germania aveva determinato l’orrore.
© Riproduzione riservata







