Ci sono momenti che segnano e condizionano la vita di tutti noi, pur se inconsapevolmente. Quel momento io lo identifico in una notte del 1994, quando l’Italia era in attesa di capire chi, fra Silvio Berlusconi e Achille Occhetto, avrebbe vinto le elezioni in Italia. Anni dopo capii i risvolti enormi, il contesto di quell’evento storico ma allora ero solo una bambina. Eppure ricordo perfettamente immagini e sensazioni di quelle ore. Seduta con i miei genitori in cucina davanti a un piccolo schermo, ero curiosa di capire il perché di quella tensione in famiglia.

In quel periodo mia madre mi stava leggendo qualche brano dei suoi amati romanzi russi, non ricordo quale ma ricordo che avevamo parlato al lungo di un passaggio che raccontava dell’espropriazione di una casa con l’avvento della Rivoluzione d’ottobre. E mi spiegò con parole semplici che Occhetto era l’erede di quell’ideologia così che l’altro sfidante, Silvio Berlusconi, divenne ai miei occhi un eroe. Ricordo quel volto rassicurante e quel sorriso, contagioso, ottimista e la sensazione che provai, certamente condizionata dalle speranze che in lui nutriva la mia famiglia. E se ci rifletto, faccio iniziare da quel momento la mia passione per la storia, per la politica, per l’attualità, per lo studio. Per la libertà. Una passione così viscerale che ha condizionato tutte le scelte della mia vita. È stato così per tanti di noi, giovani e meno giovani. Quel sorriso sicuro, quella simpatia, quell’ottimismo che regalava un sogno, quello di un’Italia dove crescere era possibile, forse un po’ americano eppure profondamente, visceralmente italiano, hanno indubbiamente regalato a tante generazioni, in un contesto orfano nel bene e nel male delle ideologie, l’amore per la politica.

Un amore che mi portò, adolescente, a saltare la scuola e a prendere un autobus fino a Roma, per una grande manifestazione di piazza contro il Governo Prodi. Un corteo di libertà, contro tasse e immobilismo. La scelta di Roma per l’università, solo perché sede del Parlamento. La decisione poi di far diventare la politica il mio lavoro, la mia malattia. Ho riflettuto a lungo su quale sia stato il motivo che ha portato un intero popolo ad apprezzarlo, a seguirlo ma anche ad odiarlo, così visceralmente. La risposta che mi sono sempre data e che ad oggi mi do con ancora più sicurezza è che sia stata la sua stessa discesa in campo: quella che ha impedito agli eredi del comunismo, allo statalismo più illiberale, di prendere in mano il Paese.

È questo quello che a mio avviso ha provocato poi anche la spirale di odio dei suoi nemici. Gli oppositori hanno a lungo sostenuto che quella scelta non fu fatta per ragioni ideali ma in difesa delle sue aziende: un’argomentazione che anche se fosse vera non ne cambierebbe di una virgola la portata. Scendendo in campo egli ha difeso le sue aziende, i suoi lavoratori ma anche un intero Paese. Qualche mese fa, ebbi l’occasione di sentirgli raccontare quel momento in un contesto riservato. Ci raccontò che tentò il tutto per tutto per fermare i comunisti e che, pur non volendo, fu costretto a scendere in campo: furono i suoi sondaggisti a spiegargli che lui era l’unico nome possibile. E quella discesa in campo gli provocò l’attacco feroce delle toghe, una persecuzione mai conclusa, che ha rinsaldato ancora di più il suo popolo. Fu tra l’altro quella persecuzione, a insegnare il garantismo alla destra e a farlo abbandonare alla sinistra.

E nonostante tutto, il suo sorriso. Continuo a citarlo sì, perché lo ho chiaro nella mente. Il sorriso del Cavaliere, contro il grigiore di Occhetto, la compostezza di Romano Prodi, il volto rancoroso di Marco Travaglio. Il sorriso come arma elettorale ma anche come rappresentazione esterna del suo eterno ottimismo. Il sorriso che gli ha permesso di resistere anche nei momenti più difficili.

La verità è che chiunque voglia incasellare culturalmente Silvio Berlusconi commette un errore non di poco conto: egli è stato un grande uomo di centrodestra, vero, ma soprattutto un uomo di Stato. Nei momenti critici del Paese ha sempre fatto un passo indietro di fronte all’interesse delle istituzioni. Allo stesso tempo, ha condotto da moderato le sue battaglie in modo radicale. Per descrivere Silvio Berlusconi è necessario guardare l’uomo e l’imprenditore. Non solo il politico. Molti liberali gli contestano di non esserlo mai stato fino in fondo: ed è vero, ed è stata la sua forza, perché Silvio Berlusconi, come tutti gli statisti, non ha mai avuto una visione eccessivamente ideologica della realtà. Concavo e convesso, così lo definiscono. Ci sarà tempo per fare un bilancio, per raccontare i suoi traguardi storici, da Pratica di Mare al discorso al Congresso americano, al discorso di Onna, quest’anno citato e ricordato anche dagli avversari; così come i suoi fallimenti, dalla rivoluzione fiscale alla mancata riforma della giustizia.

Di raccontare come sia rimasto sempre però in fondo un uomo del popolo, che nonostante le vette raggiunte, non ha mai smesso di commuoversi di fronte a una nave di migranti provenienti dall’Albania e di aiutare, in silenzio, chiunque ne avesse bisogno. Ieri si è chiusa un’epoca, ripetono tutti. Ed è doloroso. Ma nel cuore di chi lo ha sostenuto, c’è la consolazione che è stato salutato riconoscendogli finalmente il ruolo che ha svolto in questo Paese. Dalle parole di Mattarella a quelle di Draghi, il tributo e il riconoscimento del suo alto profilo istituzionale è stato netto. Poco importano le note stonate degli odiatori di sempre. Una rivincita per lui che ci guarda da lassù, un regalo enorme per il suo popolo.