Dazi, difesa, diritti. Sono tre “d” che oggi si incrociano tra le esuberanze di Trump e quelle di Orbán e che rendono ogni giorno più urgente dare dell’Europa una definizione unitaria, sotto il profilo politico e militare. Ne abbiamo parlato con l’onorevole Pino Bicchielli, Vicecapogruppo di Noi Moderati a Montecitorio e Capogruppo in commissione Difesa.

Meloni a Washington: sul piatto l’opzione che Stati Uniti ed Europa arrivino a creare una zona di libero scambio, rispettando il patto assunto con la Nato di arrivare al 2 per cento di spese per la Difesa?
«Trump ha un problema di disequilibrio della bilancia commerciale, frutto di anni di politiche industriali e commerciali, che non può però scaricare tutto su di noi, che, prima di tutto, dobbiamo proteggere le nostre esportazioni e rafforzare anche nuovi mercati, ma dobbiamo fare attenzione agli approvvigionamenti. L’obiettivo finale è trovare un equilibrio fra autonomia strategica, ossia limitare le dipendenze dall’estero, e apertura ai mercati globali, nessun mercato è di per sé autosufficiente».

La Cina domina la filiera globale delle terre rare: ogni caccia F-35 contiene oltre 400 kg di terre rare, ogni sottomarino americano può contenerne 4.000 kg. La Casa Bianca avrà fatto bene i conti, nel dichiararle guerra commerciale?
«Il fatto che la Cina controlli la commercializzazione di oltre il 90% delle terre rare, anche estratte in Africa, è un problema e Trump non è certo l’unico a porselo. Già nel 2020, all’indomani dei lockdown cinesi, l’Europa corse ai ripari avviando accordi bilaterali e nuovi progetti di ricerca e estrazione. Nessuno nell’immediato è in grado di sostituire le forniture cinesi, ma il tema è proprio ridurre la concentrazione di approvvigionamenti che possono creare dipendenze tecnologie più pericolose ancora di quella energetica».

In ogni caso, la certezza è che gli Usa di Trump lasceranno all’Europa il compito di difendersi da sola. Come immagina, onorevole Bicchielli, questa alleanza militare europea?
«Trump ci ha abituato a tanti strappi e altrettanti passi indietro, quindi non lego esclusivamente alle future strategie USA la necessità comunque in capo all’Europa di rafforzare la propria difesa. E lo dobbiamo fare in primis concentrandoci sugli aspetti industriali e tecnologici, interessanti anche per il principio del dual use. L’Europa deve migliorare la sua sensibilità politica. L’alleanza militare non è un problema dei militari che da tempo quotidianamente fanno esercitazioni comuni, riguarda soprattutto la politica industriale e la cooperazione. Ad esempio è impensabile che in Europa le forze armate usino 13 tipi di carri armato diversi contro l’unico carro armato usato negli USA».

Esiste un tema di produzione e di forniture non allineate tra stati membri del’’UE. Si lavora a una soluzione?
«Dobbiamo fare economie di scala, mettere a sistema ricerca, innovazione e investimenti, creare alleanze industriali e progetti congiunti. Oggi le già poche risorse, rispetto ai competitor, sono disperse in diverse produzioni. Resta però il tema delle risorse: dobbiamo convogliare capitali privati e dobbiamo farlo su tutto il tema dello sviluppo tecnologico. Su questo punto può essere interessante la proposta italiana di una garanzia europea agli investimenti».

La difesa europea è bloccata dal veto dell’Ungheria, che si mette di traverso su tutto. L’Europa deve trovare una formula per adottare decisioni senza obbligo di unanimità?
«Che sia l’Ungheria o un altro Paese, sarà sempre più complesso trovare l’unanimità su temi strategici. Come Italia ci siamo scontrati per anni contro il muro del disinteresse sul tema della gestione dei flussi migratori, oggi sulla difesa dal nostro punto di vista c’è interesse al tema tecnologico, altri paesi potrebbero sentire maggiore la minaccia e voler prima una forza in campo. È necessario trovare un meccanismo che renda maggiormente operativa e rapida l’Unione almeno su temi strategici e urgenti. L’UE non è un club, dobbiamo avvicinarci maggiormente al concetto di federazione se vogliamo davvero che conti anche sugli scenari globali».

La Germania torna a investire nell’esercito, la Polonia pensa di reintrodurre la leva obbligatoria. In Italia la cultura militare rimane un tabù culturale, ideologico, intangibile?
«Non credo sia un tabù culturale, ma più una questione legata alla percezione della minaccia. Anzi, credo che le forze armate godano di grande stima e reputazione nel popolo italiano. Personalmente non sono a favore del ritorno alla leva militare, proprio perché ritengo particolarmente valido il nostro sistema. Il nostro è uno dei primi eserciti a essere diventati professionali, vantiamo un’altissima preparazione, dobbiamo investire maggiormente in dotazioni ed equipaggiamenti più all’avanguardia, penso anche al tema della cybersicurezza. Quindi dobbiamo investire su un esercito di grandi professionisti in grado di gestire importanti tecnologie».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.