I “titoloni” di ieri mattina diventano i “titolini” di oggi. Nessuno spin, ieri, sulla “centralità dell’Italia” e della “premier Meloni nelle trattative”. Toni bassi e pive nel sacco. Le trattative in Europa sono lunghe, conoscono alti e bassi, improvvise frenate e autentiche accelerazioni. Dunque non c’è da stupirsi più di tanto. Però diciamola tutta: di due risultati necessari ne è stato conquistato uno solo, il minimo sindacale per la tenuta dell’Europa, l’avvio dell’ingresso di Ucraina e Moldova nella Ue; degli altri cinque in agenda, a cominciare dalla revisione del bilancio Ue e dal conflitto in Medioriente, se ne sono perse le tracce. E questa è una pessima notizia soprattutto per l’Italia che è ferma su tutto, specie sul nuovo Patto di stabilità e crescita.

“Il rinvio del bilancio Ue è una decisione molto grave, soprattutto per l’Ucraina” ha detto ieri il commissario Ue Paolo Gentiloni. Il carico da 90 ce lo ha messo il ministro economico Giancarlo Giorgetti. Ospite alla festa di Fratelli d’Italia a Castel Sant’Angelo, ha paragonato i vertici europei a delle “riunioni di condominio”. A Bruxelles, ha detto, “manca la dimensione politica dell’Europa e tutto questo ha conseguenze soprattutto di tipo economico. La Ue è incapace di prendere qualsiasi decisione in termini tempestivi e strategici. Corre dietro agli Usa, alla Cina, a tutti. È impossibile decidere”. Su quasi tutto. A cominciare dal nuovo Patto di stabilità e crescita (Psc).

È stato il convitato di pietra assente dagli ordini del giorno ma presente in tutti i bilaterali diurni e notturni. Le regole fiscali e di bilancio dei 27 paesi dell’Unione, sospese nel 2020 causa Covid, torneranno in vigore a gennaio. A meno che non si arrivi ad una nuova governance dei bilanci. “Le negoziazioni sono andate avanti per mesi – ha spiegato Giorgetti – ma sono scarse le possibilità che si arrivi a un’approvazione la settimana prossima”. Sarebbe in calendario una videoconferenza mercoledì 20 dicembre per vedere se si riesce a chiudere. Ma, ha detto il titolare del Mef, “io non vado a chiudere un accordo che condiziona l’Italia per i prossimi 20 anni in videconferenza”. Quei “passi in avanti” rivendicati appena martedì in Parlamento da Giorgia Meloni – lo scomputo dal deficit degli interessi sugli investimenti sostenuti per la transizione green, digitale e la Difesa – sono improvvisamente diventati troppo poca cosa per firmare l’ipotesi di compromesso. E poi, il fatto che una corrente di economisti non certo di destra ed europeisti convinti, a cominciare dall’ex premier e senatore a vita Mario Monti, ponga da giorni seri dubbi sulle nuove regole e sulla nuova presunta flessibilità del Patto, ha dato fiato e coraggio a Giorgetti che ha minacciato il veto da settimane. “C’è un negoziato – ha spiegato – in cui abbiamo contro la maggioranza dei Paesi, guidati dalla Germania, che si ispirano a un criterio di frugalità o austerità. Abbiamo fatto dei progressi ma ancora non è la posizione italiana. Su un negoziato come questo che richiede l’unanimità per cambiare le regole, capite che è estremamente complesso. Vediamo, ci giochiamo tutta la partita con coraggio e intelligenza”. Diffidando, anche, “di chi invita a fare i matti”, cioè ad usare il potere di veto.

Insomma, alla fine il bilancio del vertice super importante, “storico” e “decisivo” è molto magro. Giorgia Meloni è, ovviamente, “molto soddisfatta per la centralità dimostrata dall’Italia nelle trattative”. Avrebbe preferito allungare la missione a Bruxelles fino a domani – c’era questa eventualità – ma invece è tornata ieri pomeriggio perché non c’era più nulla su cui discutere. In tempo per accogliere ad Atreju tutti i suoi ospiti, da Rishi Sunak a Elon Musk fino ad Abascal, leader di Vox. Soprattutto per vigilare sulla legge di bilancio che andrà in aula martedì al Senato per iniziare la prima lettura. Le opposizioni sono sul piede di guerra. I brutti scherzi anche.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.