Ancora una volta il debito pubblico torna al centro del dibattito politico e lo fa grazie all’intervento al meeting di Rimini del governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta. Il numero uno di Palazzo Koch spiega: “L’Italia è l’unico paese dell’area dell’Euro in cui la spesa pubblica per interessi sul debito è pressoché equivalente a quella per l’istruzione”. Alla vigilia della manovra di Bilancio, l’intervento di Panetta è sembrato quasi un “consiglio” all’esecutivo guidato da Giorgia Meloni e al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Per la serie: evitiamo di fare ulteriore debito e puntiamo la barra verso la sua riduzione.

Riduzione debito

Eppure non passa anno, non passa manovra finanziaria che non si discuta della riduzione del debito pubblico. La domanda che bisogna porsi è: come mai il debito pubblico italiano non si riduce? Perché le politiche di bilancio del nostro paese non riescono a comprimere quella enorme mole di quasi 3mila miliardi di debito? Il problema non è solo il debito ma la quota di interessi da pagare che, nel 2024, raggiunge quasi i 93 miliardi di euro. Soldi sottratti alla collettività e al suo benessere.

Nel corso degli anni, ogni esecutivo ha provato – almeno a parole – manovre per ridurre il debito in valore assoluto. Pochi, però, ci sono riusciti. I motivi sono essenzialmente tre: l’enorme macchina burocratica che si nutre con il debito; le promesse elettorali di chi vince le elezioni; la gestione del potere che deriva dall’economia.

Burocrazia 

La riduzione del debito viene scoraggiata, se non del tutto ostacolata, dal sistema della burocrazia che permea gli enti locali italiani. Un “Moloch” gigantesco che negli anni ha acquisito potere proprio grazie alla gestione delle risorse economiche. Non bisogna scomodare Weber o Galbraith per descrivere come le burocrazie sono tecnostrutture che si autoalimentano. Tagliare il debito significa tagliare posti nel sistema degli uffici romani, in quelli regionali e in quelli comunali. Se a ciò si aggiunge l’aperto contrasto che i “mandarini” che coadiuvano i ministeri hanno sempre posto al taglio delle loro competenze, il quadro è chiaro.

A offrirne un’ulteriore testimonianza è il presidente emerito della Corte Costituzionale, Sabino Cassese. In un editoriale pubblicato sul CorSera di giovedì 22 agosto, Cassese spiega come la delega del governo per semplificare gli adempimenti burocratici per le imprese si sia concretizzata in un nulla di fatto; nel solito intervento che dovrà prima prendere atto della situazione esistente e poi procedere agli interventi, al taglio “delle carte”. Eppure era un disegno di legge presentato da Mario Draghi e da Giorgetti al fine di rendere più facile fare impresa in Italia. Invece ha vinto di nuovo la burocrazia.

Promesse elettorali

Un motivo per cui non si riesce a tagliare il debito pubblico è perché nel farlo bisognerà scontentare qualcuno. Basti pensare, ad esempio, che il sistema delle aziende ottiene incentivi per quasi 36 miliardi di euro l’anno. Alcuni di questi, secondo insigni economisti, sono del tutto inutili e improduttivi ma non si riescono a tagliare. Cosi come non si riesce a tagliare la miriade di bonus che il governo di turno elargisce ai cittadini. Negli ultimi trent’anni, insomma, è mancato un esecutivo che agisse con una visione di lungo termine, preferendo sempre la logica elettorale delle mance e delle mancette.

Un punto a parte merita il discorso relativo alla gestione del potere. In Italia lo Stato muove l’economia sia in maniera diretta (con le aziende di Stato) che indiretta, finanziando le imprese e i cittadini. La gestione di tutti questi soldi implica la gestione stessa del potere. Quale governante si auto ridurrebbe le facoltà di intervento? I policy maker dovrebbero ricordare la massima di Milton Friedman: “Non esiste peggiore imposta per un cittadino del debito pubblico generato da chi governa”.

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