Pubblichiamo la postfazione scritta da Marco Cappato per il libro “Diritti che camminano. Uno sguardo sui diritti civili in Italia dal 1968 ad oggi attraverso gli occhi di Carlo Flamigni” di Marina Mengarelli Flamigni, Edizioni Pendragon, 2020.

Se penso al concetto di Storia (con la “S” maiuscola) la mia mente crea l’immagine di ponderosi volumi che ritraggono qua e là eserciti in battaglia, piazze ricolme di folla, ritratti austeri o fotografie di Grandi Uomini (meno spesso, donne) e una ridda di date nelle quali tutto è cambiato. La Storia è anche questo, non c’è dubbio. Ma com’è interessante anche una storia diversa (con la “s” minuscola) vista dall’altro “lato”, dove sono donne e uomini a guardare fuori e a raccontarci cosa è successo attorno a loro, cosa è passato attraverso i loro occhi, le loro menti, ma anche i loro corpi! Nelle pagine dei Diritti che camminano siamo noi, in realtà, a passeggiare nella storia attraverso le rivoluzioni del e sul corpo, in particolare sul corpo delle donne, accompagnati da vita e opere di Carlo Flamigni riordinate e rielaborate da Marina Mengarelli. È una storia che incrocia la Storia, e ci aiuta a leggerla in modo meno deterministico: le cose non sono andate così perché dovevano andare così, verso un ineluttabile progresso fatto di maggiore libertà, ma perché ci sono persone che hanno messo in pratica le proprie convinzioni, magari nel momento giusto.

Ho conosciuto Carlo Flamigni a un dibattito a Bologna. Era appena stata approvata la legge 40/2004 e il mondo laico discuteva sul da farsi. Del Professor Flamigni – che diventerà poi anche per me Carlo – sapevo solo che era un “grande”, un punto di riferimento della medicina laica. Ma quella sera Carlo e io non eravamo d’accordo. Per me il da farsi era chiaro: referendum! Se la politica dei partiti produce una legge impopolare e violenta, si affidi al popolo il compito di abrogarla. Carlo era scettico e prudente, non nel merito, ma sulla fattibilità e utilità del percorso referendario. La storia raccontata da Marina Mengarelli ci insegna – ma senza saccenza- che avevamo un po’ torto ma molta ragione entrambi. I referendum naufragarono nel fallimento del quorum, ma da quella sconfitta di posero le basi per demolire la legge 40, seguendo la strada delle persone prima ancora che dei partiti, delle aule di tribunale laddove quelle parlamentari rimanevano con la porta sbarrata.
Già, i partiti! Il filosofo Augusto Del Noce negli anni ‘80 vaticinò per il Partito Comunista Italiano un futuro da “Partito radicale di massa”. Ultimamente questa citazione viene ossessivamente ripresa da alcuni opinionisti per leggere storicamente le difficoltà del Partito democratico, al quale si imputa di avere dimenticato le lotte sociali e per il lavoro a favore di nuove e meno impegnative – almeno sul piano dei bilanci dello Stato – attenzioni per i nuovi diritti all’autodeterminazione individuale, ad esempio sui diritti delle persone omosessuali, o migranti.

La lettura dei Diritti che camminano potrebbe suggerire considerazioni diametralmente opposte. Quello che Marina Mengarelli definisce (con indulgenza) “campo progressista” ha perso molto tempo, in certi casi decenni, ad accorgersi dei mutamenti sociali, col risultato non solo di non aver guidato né cavalcato il cammino dei diritti, ma di esserne rimasto di volta in volta superato o spiazzato, o persino di averlo tentato di frenare. Su questo, il mio giudizio -condizionato dall’aver osservato per un quarto di secolo queste vicende dall’interno alla storia radicale- è più critico di quello offerto in queste pagine. Non mi sarebbe nemmeno necessario rievocare l’idiosincrasia del Pci-Pds-Ds-Pd per ogni tipo di scontro sulle libertà civili. Mi basta scoprire e meglio conoscere, grazie a Marina, la figura di Carlo per intuire tra le righe il trattamento da lui ricevuto dalla leadership nazionale del “campo progressista”.

Mi torna allora in mente che sì, aveva ragione Carlo a temere il voto su un tema complesso come quello tra embrioni e fecondazione, ma ripenso anche che al fatto che noi – allora come Associazione Luca Coscioni e Radicali italiani – quello che proponevamo era un quesito di abrogazione complessiva, e non i quattro quesiti di ritaglio per abrogazioni parziali e dunque inevitabilmente tecniche volute dal “campo progressista”. L’abrogazione complessiva avrebbe avuto lo scopo di fare proprio ciò che quel avrebbe voluto quel vecchio militante comunista che – ci racconta Marina – si avvicinò a Carlo per rammaricarsi di come fosse stata mancata l’occasione per porre la questione della laicità dello Stato, prima ancora di quella di specifiche “tecniche” da liberare. Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io.

Quando il Carlo di Marina – ma anche la Marina di Carlo – leggono gli inciampi progressisti come frutto di efficaci e continui sgambetti dei cattolici contro i laici, mi fanno pensare che questa lettura rischi di “assolvere” tanti “amici” che sono stati molto, ma molto, più efficaci nel rallentare il cammino dei diritti di quanto non lo siano stati gli atteggiamenti oltranzisti clericali (termine che preferisco a “cattolici”, se non altro per omaggio a quei cattolici che non invocano il Carabiniere e il Giudice per imporre un’etica di Stato) da parte di personaggi che alla fine poca traccia hanno lasciato nella vita sociale e politica del nostro Paese. Riconosco però a Marina di avere seminato – con eleganza e senza polemica – degli indizi qua e là: Andreotti che nomina Carlo al Comitato nazionale di bioetica, i leader Ds che non osano rischiarne la presenza in Parlamento; oppure anche solo la frase di Carlo «non è sufficiente definirsi laici per esserlo veramente». Chi ha orecchie da intendere, intenda.

La storia serve per il futuro. La storia dei Diritti che camminano muove i passi sulle gambe delle persone. Di Carlo, certo. Delle persone che lo raccontano, anche. Di Marina che lo ama, lo critica, lo apprezza, ne trae insegnamento e rielabora in una forma sua. Ma anche delle persone -s oprattutto delle donne, e di uomini capaci di femminismo come Carlo – che hanno vissuto sul proprio corpo la rivoluzione della sessualità, della contraccezione, della riproduzione, dell’inizio e della fine della vita. Senza armare scontri ideologici, Marina ci fa capire che anche il futuro passerà sempre di più «dal corpo del malato (della persona in generale) al cuore della politica».

«Voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi. (…)». Scrisse Pier Paolo Pasolini rivolgendosi al Congresso del Partito radicale con un messaggio scritto pochi giorni prima di morire. Penso che in quel messaggio si potesse leggere anche un invito a non trasformare grandi battaglie di libertà in grossi affari di gestione burocratica e parastatale. Sarebbe stata forse questa la lezione più preziosa per il campo progressista, anche sui temi del lavoro. Dal racconto di Mengarelli possiamo trovare anche le tracce di un percorso diverso, eppure possibile in modo virtuoso: la possibilità di passare dalla gestione di un servizio – ad esempio da come si gestisce un ospedale, o un ambulatorio di ginecologia – all’affermazione di un diritto.

Oggi questo percorso assume una importanza ancora maggiore di fronte al processo che l’autrice evidenzia all’inizio del libro: l’affermarsi della “conoscenza” come materia prima fondamentale per il reale godimento di qualsiasi diritto. Dall’inizio alla fine della vita, non è un diritto da solo a consentirci di essere liberi, ma l’effettiva conoscenza delle possibilità di una sua piena applicazione. E la conoscenza si costruisce anche giorno per giorno nelle relazioni umane, nella medicina attenta alla persona e aperta al dialogo con il paziente, ad esempio. Nell’era della conoscenza, la libertà è davvero tale se la Storia dei Diritti incrocia la storia delle persone. Ciascuno di noi, da scienziato o da cittadino, da medico o da paziente, è interpellato. Saperne di più su chi, prima di noi, si è avventurato su questo sentiero, ci sarà di grande utilità.