Le audizioni in Parlamento di Raffaele Cantone, procuratore della Repubblica di Perugia e di Giovanni Melillo, Direttore nazionale antimafia, sono eventi che hanno generato commenti e anche reazioni a livello istituzionale. Alcuni aspetti di rilievo della vicenda sono stati tuttavia trascurati o sottovalutati o mal rappresentati.
Per quanto riguarda l’audizione di Cantone sappiamo che il Procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, ha avviato controlli su “eventuali anomalie” che si sarebbero verificate nella vicenda degli accessi abusivi alla banca dati della Direzione nazionale antimafia (Dna) e ha definito “inusuale” l’iniziativa del Procuratore Raffaele Cantone “di riferire al Parlamento su una indagine incorso”. Si tratta di una anomalia anche alla luce di precedenti delibere del CSM. Infatti il 14 febbraio 2006 il Consiglio italiano censurò formalmente il Parlamento francese perché una sua commissione aveva udito il magistrato Fabrice Burgaud su una vicenda giudiziaria di sua competenza che aveva generato molto scalpore anche a livello politico (affaire d’Outreau). In quell’occasione il nostro CSM, ma non quello francese, sostenne che con quella audizione il Parlamento d’oltralpe aveva determinato “uno stravolgimento della separazione dei poteri” e violato gravemente l’indipendenza della magistratura. La censura al Parlamento francese venne approvata dal CSM italiano con i voti di tutti i consiglieri togati ed un solo voto contrario.

L’audizione del procuratore della Repubblica, Cantone, titolare dell’indagine sugli accessi abusivi alle banche dati della Dna da parte della commissione parlamentare antimafia si differenza dal caso francese solo perché il magistrato francese era stato convocato dalla commissione parlamentare del suo Paese, mentre nel caso italiano Cantone non è stato convocato dalla commissione parlamentare italiana ma è stato lui stesso a chiedere di essere da loro ascoltato per fornire spiegazioni sul caso giudiziario di cui è titolare. Evidentemente ha ritenuto che il rilievo politico del caso dovesse avere come interlocutore soggetti politici come la commissione parlamentare e non potesse essere limitato a interlocuzioni interne all’ordine giudiziario, come quelle col CSM ed il suo stesso procuratore generale. Il CSM ha finora taciuto sulla vicenda nonostante il caso francese e quello italiano siano sostanzialmente eguali (sia il magistrato francese nel 2006 che quello italiano nei giorni scorsi hanno fornito spiegazioni in parlamento su un caso giudiziario di loro competenza). In particolare il CSM non ci ha detto se anche nel caso dell’audizione di Cantone vi sia stato uno “stravolgimento della separazione dei poteri”.

Con riferimento all’audizione in Parlamento del procuratore nazionale antimafia, Giovani Melillo, i giornali hanno ricordato che la procura nazionale antimafia fu ideata da Giovanni Falcone e che anche per questo va difesa. A riguardo è tuttavia necessario ricordare che il progetto di Dna elaborato da Falcone, fatto proprio dal Ministro Martelli e approvato dal Consiglio dei ministri del 25 Ottobre 1991, era cosa ben diversa dalla Dna attuale. Infatti il decreto legislativo allora approvato prevedeva, tra l’altro, che in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso il Procuratore nazionale antimafia avesse poteri di tipo gerarchico su tutto il territorio nazionale in materia di indagini, che dovesse dare esecuzione alle “linee elaborate dal Governo e approvate dal Parlamento” in materia, e dovesse riferire periodicamente “tramite …il Ministro della giustizia ai presidenti delle Camere” sui risultati conseguiti dalla Dna. Durissime furono le reazioni contro quel decreto legislativo da parte del CSM e dei principali esponenti dell’ANM. Vennero riportate dai giornali (ne ricordo alcuni) con titoli apocalittici: “Giudici di Governo: oramai è cosa fatta” (l’Unità del 27 ottobre 1991); “Magistrati schiavi dell’esecutivo: celebreremo solo i processi che vorranno i politici” (Il Tempo, 28 ottobre 1991); “Le toghe insorgono: è fuori legge” (Gazzetta del Mezzogiorno, 26 ottobre 1991). Sessantatré pubblici ministeri (incluso Paolo Borsellino) firmarono una dichiarazione in cui si condannava il progetto di procura nazionale antimafia predisposto da Falcone perché lesivo della indipendenza sia esterna che interna della magistratura.

Come sempre avvenuto finora, anche allora l’opposizione della magistratura ad una riforma voluta ed approvata dal governo prevalse, ed il progetto di riforma predisposto da Falcone venne subito radicalmente snaturato. Venne, tra l’altro, eliminato qualsiasi collegamento tra le attività della DNA, il Parlamento ed il Ministro della giustizia, venne eliminato il potere della DNA di svolgere direttamente le indagini, venne pesantemente condizionato il potere di avocazione del Procuratore nazionale antimafia. È quindi vero che l’idea di creare una Dna è stata di Falcone ma è anche vero che l’attuale assetto strutturale e funzionale della Dna è radicalmente diverso da quello progettato originariamente da Falcone.
A me personalmente è piaciuta la richiesta di Giovanni Melillo di essere ascoltato dal Parlamento sulla fuga di notizie dalle banche dati che fanno capo alla Dna perché fornisce un parziale, limitato riconoscimento della validità dell’idea di Falcone, che io avevo con lui condiviso, secondo cui le decisioni in materia di politica criminale non debbono essere lasciate senza controlli nelle mani della magistratura, ma vadano invece elaborate, decise e verificate, come negli altri paesi democratici, nell’ambito del processo democratico.
Una postilla. Ho dianzi ricordato che 63 procuratori della Repubblica firmarono un documento in cui si condannava il progetto di Dna originariamente predisposto da Falcone. Debbo aggiungere che Piero Vigna, allora procuratore a Firenze, si rifiutò di firmarlo. Anni dopo, successivamente alla sua nomina a Procuratore nazionale antimafia, tenne una lezione ai miei studenti in cui descrisse le difficoltà che incontrava nell’attività di contrasto alla criminalità organizzata, difficoltà che derivavano dalla frequente mancanza di collaborazione delle procure distrettuali antimafia che rimanevano del tutto autonome e indipendenti nel decidere sulle indagini e iniziative in materia di criminalità organizzata, cioè proprio quei problemi che il progetto di Dna predisposto da Falcone aveva cercato di prevenire.

Giuseppe Di Federico – Professore emerito di ordinamento giudiziario, Università di Bologna

Giuseppe Di Federico

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