Quando una sentenza passa in giudicato, lo Stato celebra il più importante atto di garanzia per la convivenza civile. Dice chi è colpevole e chi è innocente, soddisfacendo la richiesta di giustizia della società per la vittima del delitto e per l’autore del reato. È una esigenza insopprimibile per la quale accettiamo tanti rischi, da quello di una condanna ingiusta a quello di una assoluzione incomprensibile. Soprattutto, accettiamo la imposizione di ritenere che la sentenza definitiva sia anche giusta. Lo Stato, però, da sempre non ignora la fallibilità della sua giustizia e per questa ragione prevede che in casi eccezionali, ma poi non tanto, una sentenza di condanna possa essere revocata affermando invece la innocenza del malcapitato cittadino. Questa eccezionalità comporta che quando si è in grado di far revocare una sentenza con la revisione del processo, bisogna farlo e ogni attacco alla sentenza che non si traduca in questa iniziativa legale, non solo è ingiustificato ma si traduce nella erosione della credibilità delle sentenze definitive su cui è impostato ogni sistema giudiziario. Questo è un pericolo che la società non può e non deve correre.

Nella vicenda Bossetti si è andati ben oltre la situazione di pericolo e questo è inaccettabile. Tutto ruota, come è noto, sulla questione del Dna. La difesa di Bossetti da sempre ritiene che ci sia in sequestro altro sangue da analizzare prelevato dal corpo della bimba e che questo accertamento scagionerebbe Bossetti. Per la verità, non ho mai capito perché durante il processo non sia stato esercitato il diritto di procedere ad accertamento nel contraddittorio col pubblico ministero e si sia invece insistito nel rimproverare la procura di Bergamo, che certamente per questo è censurabile, per non avere provveduto. Ma, a parte ciò, da quando la Cassazione ha reso definitiva la sentenza, si è assistito ad annunci continui di presentazione di istanze di revisione ma del recupero di quel sangue, assolutamente indispensabile per revocare la condanna, nemmeno l’ombra. Si teme o si sa che da quel materiale possa riemergere il Dna di Bossetti? E allora si taccia perché c’è bisogno che l’opinione pubblica abbia certezze su questo caso e cioè le certezze che provengono dalla sentenza di condanna. Se si dovesse ritenere, invece, che la prova possa essere favorevole a Bossetti, si dovrebbe rivedere con immediatezza, posta la incontestabile decisività della esistenza di un Dna non appartenente a Bossetti.

Proprio per uscire da queste gravissime ambiguità e proprio perché è interesse di tutta la opinione pubblica non solo sapere se Bossetti sia innocente o colpevole ma se la Giustizia italiana sia o non sia una cosa seria, nel rispetto dei suoi straordinari difensori, ho assunto l’iniziativa di mettere in condizione la procura generale della Corte d’Appello di Brescia di accertare la esistenza del sangue tra le cose sequestrate e di sottoporlo ad esame per stabilire una volta per tutte se ci sia o non ci sia il suo Dna. Pare di capire che questo sangue ci sia e sotto questo profilo, al di là delle scelte fino ad ora fatte dalla difesa di Bossetti, deve essere fortemente criticato l’atteggiamento dei giudici succedutisi nel valutare la sua posizione, per il sistematico boicottaggio del diritto alla prova dell’imputato che da sempre chiede il rinnovo dell’analisi del Dna, oggi fattibile con tecniche superiori e diverse da quelle a suo tempo utilizzate. Anzi, anche questo aggiornamento scientifico e tecnologico ben potrebbe essere messo a fondamento di una istanza di revisione che subordinatamente puntasse sulla erroneità delle metodologie usate nel corso del processo ed alle quali più volte è stata attribuita la responsabilità dell’affermazione di responsabilità di Bossetti. L’importante, dunque, è che si proceda perché c’è bisogno di certezze in questo caso emblematico di tutte le carenze e le anomalie del nostro sistema giudiziario.

Carlo Taormina

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