Scompare con Daniele Del Giudice, da tempo ricoverato in una clinica della Giudecca a Venezia, l’ultimo scrittore italiano del Novecento: non in senso anagrafico, ma spirituale. Erano molti anni che il suo cervello aveva ceduto logica e spazio al Doppelgänger, “il fratello muto che ciascuno porta nascosto dentro di sé”, come volle definire lui stesso, in una memorabile introduzione alle opere di Primo Levi (Einaudi, 1997), la dimensione interiore d’oblio permanente in cui finirono inghiottiti anche Paul Celan, Jean Améry e Bruno Bettelheim, reduci dai lager e tutti suicidi. Nel suo caso c’era stata sin dall’inizio un’inquietante fascinazione nei confronti dell’assenza, come risposta strategica alla mancanza di fiducia nella realtà, prisma cangiante e ingannevole, frantumata secondo le nostre interpretazioni e quindi non sempre affidabile.

Potremmo considerare la sua infanzia difficile (nato a Roma nel 1949, padre svizzero morto giovane, prima formazione in collegio) quale nucleo originario di tale carattere espressivo. Sorta di cellula germinale di una caratteristica, singolare introversione, capace di garantire un timbro unico al dettato. Ma altri avrebbero reagito contrapponendosi allo scacco familiare. Del Giudice invece si rispecchiò nel vuoto da cui sentiva di provenire, fino al punto da assumerlo nella forma di una prospettiva ideale: sin dall’esordio, con Lo stadio di Wimbledon (1983), incensato da Italo Calvino alla maniera del maestro che sceglie il proprio pupillo, mettendo al centro della narrazione la mitica figura di Roberto Bazlen (senza mai nominarlo), letterato nascosto della cultura italiana, mostrò il suo talento di raffinato stilista.

Non conta ciò che vedo o credo di vedere, bensì come riesco a rappresentarlo. Il che produce un’accelerazione vitalistica destinata alla sconfitta: è questa tuttavia la paradossale profonda ragione della letteratura. Nell’incipit del Museo di Reims (1988) lo aveva quasi proclamato: «È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura» Una volta in Antartide ne ebbe piena consapevolezza: «Non so se ho molto da raccontare a proposito di questo viaggio, perché è stata soprattutto una storia di paesaggio, e di paesaggio attraversato in macchina» (Orizzonte mobile, 2009). Siamo dentro l’oscurità cui sembra costringerci la caduta di ogni certezza. Perfino la scienza, ce lo spiegano al meglio gli epistemologi, è un’arma spuntata. Ne deriva il classico stallo della cultura moderna che Del Giudice giunse addirittura ad incarnare.

Chi, come il sottoscritto, ha avuto il privilegio di conoscere questo vero, autentico scrittore, custodisce dentro di sé il ricordo incancellabile di quegli istanti preziosi. Era la fine degli anni Novanta. Ci incrociammo in un premio letterario a Firenze, a cui decidemmo entrambi di sottrarci per fare in modo che lo dessero a Lalla Romano. Solo una battuta veloce su Franz Kafka. Il discorso si spostò immediatamente sugli aeroplani di cui Daniele, novello Saint-Exupéry, era appassionato. Avevo appena letto Staccando l’ombra da terra (1994), forse il suo libro più bello, anche nel finale dedicato alla tragedia di Ustica. Una frase mi era rimasta in testa: «Volare era tutt’altro che una manovra ben fatta».

La vita, ne dedussi, significa dunque riuscire a governare i nostri errori? Daniele assentì con un sorriso indimenticabile. E, in piedi fra la gente che passava, mi raccontò l’emozione di levarsi in volo all’alba, da solo, ai comandi di un biposto a elica, dalla pista del Lido, il sole pronto a trafiggere il campanile di San Marco. Vai su con lentezza, buchi le nuvole, ti stabilizzi sulla scia del vento, oltre i vapori. Mentre parlava ebbi l’impressione che il fantasma dell’adolescenza, appena rievocato, girasse intorno a noi e ci picchiettasse sulle spalle. Come a dire: io sono ancora qui! Compresi perché lo scrittore avesse intitolato Mania, una sua parola chiave, la raccolta di racconti appena pubblicata, che gli consentì di entrare in finale al Campiello del 1997: poi si ritirò anche da quello. Ora glielo concederanno alla carriera, come è giusto. L’epigrafe foscoliana del resto lo spiegava perfettamente: “Notate che la ‘mania’ deriva dal troppo sentire”.

«Una particolare forma di concentrazione, una forma estrema del conoscere e del coincidere con il proprio destino» leggeremo poi molti anni dopo (In questa luce, 2013). Aderire a ciò che si è, lo sappiamo, segna la strada verso la maturità. Per chi scrive si tratta di un percorso obbligato. Gli strappai la promessa che un giorno mi avrebbe portato lassù insieme a lui. Usava farlo con gli amici più cari. Avrebbe mantenuto l’impegno se l’Alzheimer non glielo avesse impedito. Una volta alloggiai in un albergo posto accanto alla stanza della residenza in cui stava, ormai definitivamente assente. Eppure ne percepivo la presenza fantasmatica. Prima di addormentarmi, mi venne in mente ciò che aveva scritto in Atlante occidentale (1985): «Non il sogno e la sua sotterranea continuità che lega il giorno e la notte, ma il sonno era il vero mistero: abbandono, fratellanza animale, e rigenerazione». Così, a modo mio, chiudendo gli occhi, ebbi l’illusione di rivederlo.