Fra i grandi romanzi italiani del secondo Novecento dobbiamo inserire I superflui di Dante Arfelli, appena ristampato da un piccolo, meritevole e coraggioso editore (Rfb, prefazione di Gabriele Sabatini, pp. 313, 178 euro), dopo una troppo lunga, deplorevole assenza dalle nostre librerie. È la storia di Luca, giovane provinciale di scarse pretese, dallo sguardo tristemente lungimirante che, negli anni grigi e tuttavia carichi di energia ed entusiasmo del secondo dopoguerra, arriva alla Stazione Termini di Roma con un paio di raccomandazioni in tasca, alla ricerca di un lavoro qualsiasi e s’incaglia in una squallida relazione con Lidia, prostituta costretta ad arrangiarsi come può nella pensioncina dove abita ed esercita, ospite di una memorabile vecchia spilorcia.

I due ragazzi, entrambi falliti in partenza, s’attraggono e si respingono, lei col patetico sogno di emigrare in Argentina, lui, che pure trova un impiego, mai davvero soddisfatto e sempre inquieto. Numerosi sono i personaggi coinvolti, dal terrorista all’arrivista, dal notabile all’ecclesiastico, dall’aristocratica benefattrice al misero borghesuccio, ma la visione resta monoculare: nello sfalsamento narrativo fra individualismo e coralità si nasconde il valore segreto dell’opera, il cui lirismo sembra rinserrato e trattenuto, specie nelle descrizioni urbane della capitale stracciona appena uscita dalla guerra che crescono come una vegetazione selvaggia intorno ai dialoghi pieni di ritmo. Potente è l’evocazione di una vecchia Italia in bianco e nero coi tram che vanno e vengono, le luci della sera frantumate sulle pareti dei palazzi spogli, le stanze sordide dove si brucia l’amore mercenario, quasi fosse una carta copiativa di quello vero, le vetrine dei negozi che accecano i passanti in un barbaglio artificiale.

Alla fine Luca si chiede: «Che cosa sono al mondo a fare? Quando ero più ragazzo ci pensavo delle ore intere, fino a farmi male la testa. Diventando grande ci penso sempre di meno perché ci sono tante altre cose». Lidia, colpita nel profondo, lo prende sul serio: «E ancora non lo sai che cosa sei venuto a fare?». Lui risponde: «No. C’è chi dice che ognuno di noi ha da fare una parte: come uno in un paese fa il fornaio, un altro fa il falegname, e ci vogliono tutti i mestieri, così dicono che ci vogliono anche i poveri e gli stupidi». Ma lei non ci crede. E lo dimostrerà lasciando di stucco il lettore. Insomma coi Superflui, a metà strada fra l’eroe americano e quello russo, siamo oltre il capolinea degli inetti di Italo Svevo, degli indifferenti di Alberto Moravia. In una zona plumbea, desolata, nel disincanto più assoluto. Dove non ci si fanno illusioni: né politiche, né esistenziali, né religiose. La risata diventa sardonica. Si tira avanti la carretta e basta.

L’autore di questo capolavoro, nato cent’anni fa, il 5 marzo 1921, a Bertinoro, in Romagna, e scomparso nel 1995 in una casa di riposo di Ravenna, è stato protagonista di una singolare vicenda umana e letteraria. Nel 1949 esordì proprio con quest’opera, pubblicata da Rizzoli, ottenendo un grande riscontro di pubblico e, seppure con qualche distinguo, anche di critica: la vittoria al Premio Venezia (antesignano del Campiello), ma soprattutto le numerose traduzioni all’estero, ne sancirono il successo. Quasi un milione di copie vendute negli Stati Uniti presso Scribner’s (che aveva in cartello Hemingway), dicono tutto. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Anche perché non si trattò soltanto di un exploit commerciale. I lettori più accorti avevano segnalato nel romanzo una maturità sconcertante, la presenza di un sacro fuoco stilistico. Sembrava nato un grande scrittore. Dante Arfelli, a quel tempo ventottenne, che aveva frequentato il medesimo liceo riminese di Federico Fellini, in una classe di un solo anno precedente, ed era stato amico di Marino Moretti a Cesenatico, sembrava accingersi a prendere posto accanto a Vasco Pratolini, Giorgio Bassani, Cesare Pavese, Mario Soldati.

Invece così non fu perché dopo il secondo romanzo, La quinta generazione (Rizzoli, 1951), di notevole valore sebbene inferiore al primo, calò il silenzio, rotto soltanto, molti anni più in là, dalla pubblicazione di pochi racconti, già usciti su alcuni quotidiani, raccolti in Quando c’era la pineta (1975, Edizioni del Girasole). Arfelli, afflitto da una nevrosi fobica e dal morbo di Parkinson, si ritirò nella solitudine profonda della provincia romagnola, cadde in miseria e per sopravvivere fu costretto a ricorrere alla legge Bacchelli. Seguirono, prima e dopo la sua morte, a cura della figlia Fiorangela, alcuni abbozzi, appunti e diari: Ahimé, povero me (1993); I cento volti della fortuna. Cronache dalla Casa di cura «San Francesco» (1996); La luce che non illumina e altri inediti dal carteggio e dalle liriche (2008). Anche soltanto scorrere queste pagine disperse, ricordi e pensieri estemporanei, composte in clinica, fa impressione perché, pur nella dimensione senile, è facile ritrovare, qua e là, certe scintille espressive di grande suggestione.

Basti citare uno degli ultimi abbozzi del 1992, Visita del prefetto, in cui lo scrittore, un po’ allo sbando, eppure ancora capace di brillare, rammenta l’omaggio ricevuto, nel cronicario in cui viveva, dall’autorità pubblica, negli anni in cui Marsilio stava riproponendo i suoi risultati maggiori e quindi l’attenzione mediatica pareva sul punto di riaccendersi: «Mi ha regalato una medaglia semicircolare su cui è raffigurata una donna con in testa una specie di cappello a tuba, che suona la tromba, i piedi sopra un quarto di luna, con quattro nuvole. La medaglia è appesa a una catenella, forse d’argento, con un piccolo cartoncino in cui è scritto ‘Made in China’». Questo era tutto ciò che restava della gloria trascorsa. Una prosa d’ironia corrosiva degna di Franz Kafka. Ecco perché, dopo aver riletto I superflui, bisogna far festa.