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Le ragioni dell'uccisione
Chi era davvero Ismail Al-Ghoul, il “giornalista ucciso da Israele” rimpianto dalla Croce Rossa Internazionale
L’altro giorno la Croce Rossa Internazionale denunciava l’uccisione, per responsabilità dell’esercito israeliano, del giornalista di Al Jazeera Ismail Al-Ghoul. L’organizzazione medico-umanitaria reclamava la necessità di tutelare i giornalisti che, a Gaza, “hanno molto sofferto negli ultimi dieci mesi”, mentre dovrebbero “godere degli stessi diritti di protezione riconosciuti a ogni altro civile”. Di rincalzo – dopo che l’emittente televisiva, per voce di una conduttrice incapace di trattenere le lacrime, dava la notizia della tragedia – il sito britannico della sinistra corbyniana Double Down News interveniva con questo lancio: “Israele decapita giornalista”. Naturalmente la morte di chiunque, specie se violenta, deve addolorare tutti.
Le ragioni dell’uccisione
A quel signore, tuttavia, gli israeliani addebitavano di essere un giornalista per modo di dire. E cioè nel senso che, nelle parentesi di tempo non dedicate a far altro (vedremo immediatamente che cos’altro), si occupava di stare embedded in Hamas per divulgarne la propaganda e coprirne i crimini. Dice: non ci sono le prove e in ogni caso non sarebbe una buona ragione per ammazzarlo. Giusto, salva una coppia di concatenati dettagli: primo, che la ragione dell’uccisione non era solo quella, vale a dire il fatto che fosse un propagandista di Hamas; secondo, che quello, se è vero quanto risulta da fonte israeliana, era un giornalista quanto era un “civile” quello che il 7 ottobre telefonava al babbo per dirgli quanto doveva essere fiero del figliolo che aveva fatto a pezzi dieci ebrei con le proprie mani. 7 ottobre cui – dice sempre Israele – il giornalista rimpianto dalla Croce Rossa allegramente partecipava nell’adempimento di funzioni professionali, per così dire, non propriamente da reporter.
E lo faceva – lo dicono ancora gli israeliani, quindi vai a sapere – sulla scorta di una carrieruccia mica male, di cui evidentemente né l’umanitarismo in camice bianco né il datore di lavoro in kefiah sapevano nulla. E ci sta. Perché questo Ismail Al-Ghoul assumeva l’incarico dopo aver curiosamente cancellato i propri profili social in cui comparivano sue esibizioni, diciamo così, non propriamente compatibili con il profilo dei professionisti nell’esercizio del proprio lavoro (“performing their journalistic work”, come scrive la Croce Rossa): poetiche didascalie su servizi fotografici dedicati al capo di Hamas, Yahya Sinwar, celebrazioni di attentati terroristici, bei manifesti che insegnano ai giovani palestinesi l’uso di strumenti antisionisti quali cesoie, asce e bottiglie incendiarie, campagne antisemite per dimostrare che gli ebrei avevano diffuso il virus del Covid e via di questo passo. È evidentemente possibile – possibilissimo, per carità – che siano tutte malevole invenzioni ed è certo – ripetiamolo – che l’uccisione di qualunque civile, pur in zona di guerra, è una tragedia. La condanna ci vuole. Basta che venga dopo il riconoscimento della verità fastidiosa: e cioè che c’erano “civili” a perpetrare, e “giornalisti” a immortalare, mentre aveva corso, il pogrom del sabato Nero.
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